Volo notturno sul villaggio di Gregory Crewdson

Un uomo in poltrona guarda dritto davanti a sé, in una stanza completamente distrutta. Una donna in sottoveste galleggia esanime nel salotto della sua casa. Un uomo riveste l’interno del suo garage di uno strato di terra ed erba e un altro fa la stessa cosa in soggiorno. Una ragazza ha accumulato una montagna di fiori in cantina e un’altra ha fatto lo stesso in cucina. Un ragazzo in una doccia infila il braccio nel foro dello scarico che ha appena smontato. Un uomo immobile in mezzo alle rose osserva l’interno della sua casa in cui la moglie e la figlia giacciono addormentate davanti a un televisore acceso. Un gruppo di ragazzi scava una buca nella radura di un bosco mentre un uomo seppellisce, o disseppellisce, un gran numero di valigie in mezzo agli alberi. Ancora un gruppo di ragazzi cammina come ipnotizzato lungo un binario morto, gregory-crewdson-01in una direzione che sembra non avere una meta. Un altro gruppo, sempre su un binario morto, guarda inebetito e indifferente una casa in fiamme. Una donna e un bambino siedono in silenzio a una tavola imbandita, alla quale però mancano gli altri due commensali. In un’altra sala da pranzo un’altra famiglia, questa volta al completo, siede a tavola per la cena ma smette inspiegabilmente di mangiare e fissa lo sguardo nel vuoto. Una donna seduta in soggiorno osserva una ragazza che le si presenta nuda davanti agli occhi. A un’altra accade la stessa cosa ma riflessa nella specchiera della sua camera da letto. Un uomo esce dalla macchina e si ferma a pochi passi sotto una pioggia battente. Lo stesso fa una giovane donna in sottoveste e a piedi nudi uscendo da un taxi, davanti all’entrata di una casa immersa nelle fronde degli alberi. Ecco alcune situazioni caratteristiche delle immagini create da Gregory Crewdson.

Questi personaggi sono sempre immobili, come paralizzati. Si ha l’impressione che siano stati disinnescati, disattivati o, addirittura, privati dell’anima. Si trovano tutti all’interno della propria abitazione, in garage, in giardino, nel bosco alle porte del villaggio, in mezzo alla strada, ad un incrocio, al parcheggio del supermercato. Ambienti affatto ordinari che caratterizzano la vita di tutti i giorni di ognuno di noi, ambienti sempre domestici e familiari. Tuttavia, enigmaticamente, in Crewdson diventano scenari ambigui, sospesi, misteriosi e inquietanti. In tutte le scene rappresentate da Gregory Crewdson è senza dubbio successo qualcosa di grave e di definitivo in merito al quale, però, non ci viene detto nulla e che soltanto i protagonisti dell’accadimento sembrano conoscere e controllare. O, più probabilmente, neanche loro.1426535724-spavjo1esmlmd6yuld5o

Gli ambienti che costituiscono il repertorio scenografico delle immagini di Crewdson sono sempre gli stessi: case di legno bianche o tinteggiate a colori pastello, prati verdi e giardini ben curati con barbecue e giochi per bambini, alberi secolari e boschi fittissimi, il profilo azzurrognolo o violetto delle colline in lontananza, verande con sedie a dondolo e staccionate ancora fresche di vernice, salotti arredati con mobilio a buon mercato, sale da pranzo con tavole imbandite a festa, camere da letto con la moquette abbinata al copriletto e alle tende, stanze da bagno un po’ squallide e disadorne, cucine vagamente stantie, garage e capanni per gli attrezzi da giardinaggio. Anche gli elementi iconografici, gli oggetti e gli animali, sono costanti e ricorrenti: automobili aperte o abbandonate, divani e poltrone davanti a televisori sempre accesi, letti sfatti e cuscini tormentati, lampade e abat-jour in ogni angolo della casa, specchi e tolette, comodini invasi da barattoli di pillole e mozziconi di sigaretta. E ancora rose e fiori variopinti, farfalle altrettanto colorate, uccellini canori con le loro uova, e insetti silenziosi e laboriosi sempre nei paraggi. È il regno apparentemente sicuro e idilliaco della piccola borghesia di provincia.

Gregory Crewdson è un fotografo americano famoso in tutto il mondo. Nasce nel 1962 a New York. Cresce a Park Slope, un quartiere di Brooklyn, dove sua madre esercita la professione di psicanalista freudiana e riceve i pazienti nel seminterrato della casa in cui vive insieme alla sua famiglia. E dove il giovane Gregory ascolta tutte le sedute di psicanalisi della madre sdraiato per terra in salotto con l’orecchio appoggiato al pavimento. Oggi Crewdson insegna fotografia alla Yale School of Art di New Haven e finora ha realizzato otto ampie serie di fotografie. La prima delle quali, Early Works, risale al biennio 1986-88. Seguiranno Natural Wonder, Hover, Twilight (tuttora la serie più conosciuta), Dream House, Beneath the Roses, Sanctuary e infine Cathedral of the Pines del 2015. Tutte le sue creazioni artistiche sono il frutto di produzioni molto costose e del lavoro di ampie troupe di tecnici e specialisti. Gli scenari da lui ricreati sono in parte il risultato di elaborati allestimenti scenografici realizzati in studio, e in parte l’esito di riprese effettuate direttamente sul luogo. Il tipico villaggio di collina e  immerso nei boschi che vediamo nelle fotografie di Gregory Crewdson è nella fattispecie quello della cittadina americana di Lee, nel Massachusetts. Il periodo dell’anno è quello che prende il nome di Estate di San Martino, nel mese di novembre, e che alterna a un clima ancora mite e soleggiato i primi rigori dell’inverno.

5.1.2A voler ricostruire un ideale percorso tematico e iconografico che ci conduca alla fine all’opera di Crewdson, non sarebbe sbagliato prendere come punto di partenza la pittura di Edward Hopper. Questi, infatti, ben ritrasse le atmosfere malinconiche e desolate, fatte di crepuscoli silenziosi e lunghe ombre pomeridiane, della provincia americana del nord-est nella prima metà del Novecento. Quella stessa provincia americana indagata poi in fotografia da artisti come Walker Evans, noto per la sensibilità fortemente realistica delle sue immagini, e più tardi William Eggleston. E poi dalla newyorkese Diane Arbus alla cui produzione fotografica, incentrata sulla rappresentazione di un’umanità alienata e marginale, lo stesso Crewdson ha dichiarato di aver sempre guardato con ammirazione.

Un contributo significativo all’ispirazione di Gregory Crewdson può averlo fornito anche una vena più specificamente letteraria rappresentata dai romanzi di Stephen King (e dalle relative trasposizioni cinematografiche) e di Ray Bradbury (come nel caso di Something wicked this way comes). Senza dimenticare i più classici Peyton Place di Grace Metalious e l’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters.

Tuttavia, ad aver maggiormente influenzato i temi e lo stile del fotografo di Brooklyn sono soprattutto il cinema e le costose produzioni hollywoodiane di registi importanti come lo Steven Spielberg di E.T. e Incontri Ravvicinati del Terzo Tipo, il David Lynch di Velluto Blu e Twin Peaks, e il Richard Kelly del più recente cult-movie sulla dimensione surreale e allucinata dell’adolescenza Donnie Darko. Infine, è necessario ricordare in questa panoramica di influenze anche la celebre serie televisiva del 1959 firmata da Rod Serling e intitolata The Twilight Zone (trasmessa in Italia con il titolo Ai Confini della Realtà).

Con i fotografi Cindy Sherman, Jeff Wall e Thomas Demand, il regista Wes Anderson, e lo stesso Gregory Crewdson, si arriva a definire e teorizzare una precisa tendenza all’artificiosità, a una forma di raffinatezza estrema, e alla messa in scena di set straordinariamente accurati e ricchi di particolari. Per questi artisti il concetto-cardine è quello della riproduzione perfetta, iperdettagliata, di una realtà altra che sostituisca la realtà reale, oggettiva, nella quale vivivamo. Questa viene infatti rifiutata e respinta senza mezzi termini poiché percepita come inquietante, perturbante (per dirla con Sigmund Freud) e alienante. È allora a questa nuova realtà, artificiale e soggettiva, a questo surrogato simbolico della realtà, che si guarda e che si fa riferimento. Che si fotografa e si riprende con la telecamera. Ma la sorte è spesso ironica e in questo caso la nuova realtà riprodotta finisce per assomigliare molto a quella originale, ed essere altrettanto oscura e angosciante.

In questa prospettiva appena delineata possiamo allora introdurre i concetti di staged photography (fotografia inscenata, teatralizzata) e di single-frame movies (film a inquadratura unica o film fotografici). Si tratta di immagini dense, complesse, altamente strutturate. Da un punto di vista dei contenuti sono scene di alienazione domestica e individuale, psicogrammi fotografici di un’umanità interrotta e smarrita, istantanee di una vita di provincia che ha superato il punto di non ritorno.

A ben vedere non siamo qui così lontani da una concezione teatrale e secentesca, quindi barocca, dell’arte. Questa corrente prevedeva infatti un’accurata selezione dei simboli e degli elementi da rappresentare, la loro composizione in un contesto armonico ed omogeneo (come, ad esempio, nel caso del cosiddetto belcomposto berniniano), e la conseguente trasposizione in una dimensione ultraterrena e spirituale del soggetto rappresentato. Ne è ulteriore dimostrazione l’uso caravaggesco che Crewdson fa della luce, e degli effetti luministici in genere, che ha senza dubbio contribuito a consacrarne la fama e che è poi diventato una sorta di marchio, di sigla, il tratto caratteristico dell’autore stesso.Daughter_cover_2

Non di rado i personaggi delle immagini di Crewdson vengono investiti da fasci di luce che potremmo anche definire mistica. Si ritrovano assenti e stupefatti, come in estasi, a contemplare misteriose sorgenti di luce che di naturale hanno effettivamente ben poco. È una luce rivelatrice, forse salvifica, che fa da tramite fra ciò che è visibile e ciò che non lo è. Proprio come sulla linea dell’orizzonte lungo la quale il sole scompare e ha inizio la notte. Quella sottile lingua di luce che appare al tramonto e che gli Americani hanno identificato come the Twilight Zone. Questi raggi di luce trascendente possono arrivare dalla chioma di un albero come dalla grata di un tombino, dai fari di un’automobile ferma ad un incrocio come da un faretto al neon incastonato nel controsoffitto di una sala da pranzo. Dallo sportello aperto di uno scuolabus vuoto come da un televisore rotto, dalla moquette strappata e le assi divelte di un pavimento domestico coperto di terra.

È la luce della rivelazione, del risveglio a una dimensione superiore e della riconciliazione con essa. E segna il momento della comprensione autentica e profonda delle cose per quello che sono veramente. Forse, il momento dell’illuminazione. Ma soprattutto, questa luce testimonia dell’irruzione violenta della Natura nella vita di tutti i giorni e del suo riaffermare il proprio dominio su ciò che le spetta per diritto. Questo tema del ritorno a uno stato di Natura è il vero motivo conduttore, centrale in tutta l’opera di Gregory Crewdson. Questi infatti, intervistato sull’origine della sua arte e l’ispirazione che la sottende, disse una volta che non c’è stato giorno della sua vita in cui non si sia alzato la mattina sentendosi male fino alla nausea. È dunque questo il risveglio ritrovato di cui sentiva la necessità, questo il giro di vite e il ritorno allo stato di Natura di cui ci parla nelle sue opere.

Un orso bruno è entrato in un soggiorno, si aggira placido tra le foglie e i raggi di sole.

Simone Scaloni

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