Quando nel 1969 il ventiseienne Luigi Ghirri vide la fotografia della Terra scattata dalla Luna, quella che poi lui stesso avrebbe definito l’immagine che contiene tutte le immagini del mondo, ne fu sbalordito. Decise allora di abbandonare una volta per tutte il suo posto di lavoro da geometra, agente immobiliare o quello che fosse, dove peraltro capitava che lo rimproverassero perché si nascondeva a leggere, per dedicarsi interamente alla fotografia. Allora si comprò una bella Pentax per scattare, salì a bordo della sua Volkswagen mezza scassata e cominciò a girare il mondo. Soprattutto, va detto, il mondo della campagna emiliana dietro casa sua, a Scandiano. Qui era nato il 5 gennaio del 1943, non lontano da Reggio Emilia, e sempre da queste parti avrebbe vissuto tutta la vita. Fino al 14 febbraio del 1992 quando si spense improvvisamente nella sua grande e bella casa di Roncocesi, all’età di quarantanove anni.
Nel suo incessante girovagare per lavoro, per scattare fotografie a quello che lui chiamava il Visibile, vale a dire i segmenti di paesaggio che riuscivano a sorprenderlo, lo accompagnava spesso il silenzio fuori dal tempo della pianura emiliana, la sua terra. Sempre amata e tenuta calda nel cuore, cercata e ricercata costantemente anche in altre località lontane, centrale con le sue nebbie fitte e bianche come le sue nevicate, con le notti antiche e remote che sembrano isolarla all’infinito dal resto del pianeta, i casolari contadini sparsi all’orizzonte e le campagne che abitano anche i paesi e le città. Una terra emiliana, insomma, sempre presente in tutti i suoi scatti. Per spiegarsi meglio, ad essere sempre presente non è l’Emilia in senso stretto, intesa cioè come località geografica distinta e definita, quanto piuttosto un profumo di terra e di ragù, un’atmosfera nebulosa, un’attitudine intimista, un umore o sia pure un malumore (dunque una malinconia), propri solo di questi luoghi. Quando più tardi si fece installare un mangianastri accanto al volante, ad accompagnare i suoi itinerari visivi e cerebrali c’era invece la musica di Bob Dylan, senza dubbio il cantautore amato al di sopra di ogni altro e le cui melodie e sonorità autentiche rappresentarono, insieme ad altre influenze più segnatamente pittoriche e iconografiche, una sorgente viva e sempre attiva d’ispirazione e modus operandi.
Le altre influenze che lo segnarono e delle quali lui per primo non fece mai mistero, anche se dichiarava sinceramente di non essere in grado di stabilire quali fossero le più significative nella definizione del suo stile, sono diverse ed eterogenee. Spaziano dalle presenze fantasmatiche e sottilmente inquietanti dei film di Federico Fellini (Amarcord, uno per tutti) agli ambienti desertici e stranianti del cinema di Michelangelo Antonioni, dalle cosmogonie vernacolari e affabulatorie di Pieter Bruegel alla meticolosa attenzione per le cose caratteristica dei pittori fiamminghi in generale. Dalla delicatezza sintetica e compatta della pittura quattrocentesca di Piero della Francesca al pulviscolo luminoso e colorato del Vedutismo veneziano del Canaletto. E ancora, dalle fotografie artistiche ma con valenza documentaria realizzate nello studio fiorentino dei Fratelli Alinari alla metà dell’Ottocento, alla Straight Photography americana degli anni Cinquanta e Sessanta, rappresentata da autori come Robert Frank, Lee Friedlander e William Eggleston. Ma è una volta di più Walker Evans, con il suo rigore etico e formale, l’asciuttezza e la sobrietà del repertorio, ad aver affascinato il giovane Luigi Ghirri con più forza. E ad aver innescato in lui un’attitudine e una prassi artistica rivolte soprattutto a una registrazione scarna e fedele della realtà, specialmente quella contadina delle campagne e dei grandi spazi aperti dell’Italia del Po.
Vi è tuttavia un’altra linea di fondo, più sottile ma determinante, alla quale forse Ghirri stesso fece pochi accenni e che però non per questo è da ritenersi secondaria. È quella linea che prende a soggetto delle proprie indagini la parte meno visibile della realtà. La parte legata al sogno e all’inconscio, che si addentra nelle zone cosiddette oscure, poco note e poco esplorate, che non si vedono ma si percepiscono, e all’esistenza delle quali si allude per intuizione o predisposizione dell’animo. Questa linea di ricerca ha inizio, possiamo convenire, da una certa fotografia di metà Ottocento, particolarmente incline alla documentazione di aspetti estremi e inquietanti della realtà. Attraversa poi la Metafisica di Giorgio de Chirico e Giorgio Morandi, e l’Avanguardia Surrealista di autori come Renè Magritte, Man Ray e Max Ernst, per i quali la dislocazione di un oggetto familiare in un contesto diverso dall’abituale era sufficiente a suscitare il senso dell’assurdo. Per approdare infine alle raffinatezze estetiche e cerebrali dell’Arte Concettuale e Processuale degli anni Sessanta, tutte concentrate sulle problematiche legate al concetto di origine e identità, al linguaggio e alle sue contaminazioni, all’analisi delle procedure artistiche in quanto tali. Perché intorno al 1970, l’anno in cui Luigi Ghirri diede ufficialmente il via alla sua carriera di artista dello scatto, buona parte della fotografia smetteva di essere tradizionale e, per così dire, puramente rappresentativa, a favore di un percorso innovativo e sperimentale, che appunto in quegli anni muoveva i primi passi, d’interpretazione e ri-creazione soggettiva della realtà. Senza dubbi, un percorso di matrice concettuale. È a quest’ambito, certo insieme a tutte le altre influenze che abbiamo citato sopra, che Luigi Ghirri, consapevole o meno, affiliò la sua produzione fotografica e la dirompente vis artistica che ne fece il capostipite di uno stile immediatamente riconoscibile e di tanta fotografia a venire.
Luigi Ghirri era estremamente sensibile ai cambiamenti della società, dei tempi e del paesaggio nel quale viveva e operava. Le cose gli sembravano sempre più complesse e in troppo rapida evoluzione. La terra natìa, l’Emilia Romagna, e il paesaggio italiano in generale, gli apparivano profondamente trasformati, resi quasi irriconoscibili soprattutto durante gli anni Sessanta e Settanta e sotto la spinta dell’industrializzazione imperante, del boom economico e dell’urbanizzazione selvaggia. Percepiva la realtà come un geroglifico inestricabile che bisognava cercare in tutti i modi di ordinare e decodificare. A questo scopo sentiva che era necessario purificare lo sguardo, educarlo e guidarlo nell’analisi e nella corretta valutazione della realtà. Era sua intenzione programmatica quella di ridare spazio, luce (rigorosamente naturale) e soprattutto dignità alle cose, altrimenti ignorate e destinate all’oblio. Lo fece percorrendo l’unica via che riteneva praticabile, quella di un’attenta selezione del soggetto e della sua massima semplificazione. Avvertiva la fine di un’epoca e soprattutto di un mondo, quello contadino, travolto in fretta dall’irruenza del progresso e dalla ferocia del mercato. Per Ghirri la campagna restava il luogo magico, arcaico e atemporale, nel quale è sempre possibile beneficiare di una visione autentica, semplice ma rivelatrice nella sua ordinarietà, capace di suscitare stupore e meraviglia per il Creato. La sua attenzione alle cose era quella degli abitanti delle campagne, appunto, che per esperienza ed eredità culturale sono sempre in grado di cogliere nelle piccoli accadimenti apparentemente insignificanti tutto il mistero e la potenza cosmica della Natura. Questo era il mondo che Ghirri voleva ritrarre e salvare. Ci riuscì con le sue fotografie.
Paesaggi che sembrano sconfinare in un’altra dimensione, tanto sono familiari e naturali. E proprio in quest’apparente contraddizione, in questo enigmatico accordo di elementi antitetici (reale e irreale, pieno e vuoto, materiale e spirituale), si annidano il segreto e il fascino metafisico dell’opera di questo artista. Sono scene naturali che sembrano visioni di fantascienza. Ma attenzione, non lo sono. Non registrano un altro mondo o mondo alla rovescia. Non ci parlano di un Altrove o di un Doppio, incongruo e incomprensibile, al quale gli abitanti delle città e della civiltà urbana hanno spesso bisogno di ricorrere perché lontani ormai dalla Natura e dimentichi dei suoi misteri. E perché disorientati nell’incessante rincorsa di se stessi e preda, anche, di una frenesia bulimica e consumistica che non conosce sazietà. Per gli abitanti delle città e della civiltà urbana, allora, non di rado la visione di un evento naturale può assumere le fattezze di un prodigio sorprendente.
Si tratta invece di immagini sospese e incantate di un paesaggio interiore, nostalgico e lievemente malinconico, che è riuscito a mettersi in asse con il paesaggio esteriore, non di rado soffuso di bruma e di silenzi, che è sempre lì davanti agli occhi di tutti. Luigi Ghirri, insomma, trovò il punto di equilibrio fra la sua interiorità, cerebrale ma anche emotiva e legata alla memoria, e la realtà che aveva intorno e amava contemplare. Quel mondo che voleva conoscere, indagare e mettere in ordine con l’urgenza di chi, verrebbe da dire, sentisse sempre di non avere tanto tempo e di non potersi fermare a lungo. Di stare costantemente su una soglia fra un qui e un là, un oggi e un’eternità, e di poter sparire da un momento all’altro. Come dietro a un vetro smerigliato. O come una figurina della Panini, che si stacca da una parte e si riattacca da un’altra.
Simone Scaloni
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