Una scia bianca di fumo screzia per qualche istante il nero gelido e impenetrabile, compatto come il marmo del Belgio, di un cielo nordico senza luna e senza stelle. Improvvisamente l’urlo agghiacciante di una locomotiva a vapore squarcia il silenzio fitto della notte. Un treno nero come la notte stessa galoppa su un binario ghiacciato tra le campagne innevate delle Fiandre, sferzando la neve nella sua corsa. È partito da Bruxelles e ha appena lasciato la stazione di Gand. È diretto ad Ostenda, la cittadina fiamminga con il porto affacciato sul Mare del Nord, davanti all’Inghilterra. Il treno è vuoto, ad eccezione di qualche sparuta figura insonnolita. Un commesso viaggiatore, un medico, un veterinario, un anziano commissario di polizia che tornano a casa per il periodo di Natale. Rannicchiato e intabarrato, ognuno di loro occupa un posto a caso in uno dei tanti sedili di legno rivestiti di pelle annerita.

È la notte del 23 dicembre del 1902 e un altro giovane impiegato, ha 21 anni ed è stato assunto da poco come illustratore presso una casa editrice di Bruxelles, sta tornando a casa anche lui per trascorrere i giorni di festa con la sua famiglia. Il padre, la madre e i sei fratelli. Ha appena appoggiato sul sedile vuoto davanti a sé il libro che stava leggendo. L’ha comprato a Parigi un mese fa. Sono i racconti di Edgar Allan Poe, il suo scrittore preferito. In questo momento, mentre il vagone gelido e cigolante nel quale è seduto vola nell’oscurità verso il mare, il giovane si sta specchiando nel vetro del finestrino. Ha assunto una posa di tre quarti, rigida e austera, e sta studiando la sua espressione. Vorrebbe scoprirvi il tormento, il pathos, il fuoco sacro dell’Arte. E invece la trova semplicemente malinconica, distante e diffidente. Ma a un certo punto, l’ora tarda della notte, la stanchezza sulle palpebre e una lampadina che emette barlumi a intermittenza perché sta per fulminarsi, fanno sì che i lampi di luce sul vetro assumano le fattezze inquietanti di due volti sconosciuti accanto al suo. La lampadina fa uno scoppio improvviso e si spegne definitivamente. Nel buio lui, che pure si è spaventato, si scuote con fermezza e si riprende subito dallo strano torpore nel quale era caduto. Il treno ha iniziato a rallentare, sta per entrare nella stazione di Ostenda. Il viaggio è finito e il giovane viaggiatore che abbiamo appena incontrato si chiama Leon Spilliaert.
Leon Spilliaert (che si pronuncia spiliart) nacque ad Ostenda, in Belgio, alla fine di luglio del 1881. Suo padre Leonard faceva il profumiere e pare avesse un temperamento particolarmente eccitabile e burrascoso. Sua madre Leonie invece, una donna di casa dai modi semplici e modesti, era delicata e gentile e trascorse tutta la vita a prendersi cura del marito e dei sette figli avuti da lui. Leon era il primogenito e nel 1899, raggiunta l’età di diciotto anni, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti nella vicina Bruges. Vi rimase due mesi appena. Ne scappò via dicendo che non poteva assolutamente stare in un luogo in cui ognuno trattava gli altri come nemici. La sua formazione artistica fu pertanto quella di un autodidatta, autonoma e solitaria. Tre anni dopo, nel 1902, fu assunto come grafico da un noto editore di Bruxelles che lo volle presso di sé per illustrare i frontespizi dei libri e corredare di immagini appropriate le opere dei suoi autori. Questi si chiamava Edmond Deman ed era l’editore dei Simbolisti. Fra gli altri, pubblicò le opere di Stephane Mallarmè, Emile Verhaeren e Maurice Maeterlinck. Per la raccolta dei testi teatrali di quest’ultimo, il giovane Spilliaert realizzò ben 348 acquerelli. L’acquerello e l’inchiostro, insieme al guazzo e al carboncino, furono sempre le sue tecniche preferite per via delle trasparenze e dei suggestivi effetti di evanescenza che
consentivano. Amava le tecniche pittoriche che esaltassero il senso di mistero ed elevata spiritualità che si riprometteva sempre di infondere alle sue creazioni.

Nel corso della sua vita Leon Spilliaert fu molte volte a Parigi, soprattutto d’inverno, dove espose le sue opere in numerose occasioni. Conosceva tutti e tutti lo conoscevano. Tuttavia non aderì mai ad alcuna corrente o movimento artistico in particolare. Non fece parte di alcun gruppo e non ebbe mai discepoli o seguaci. Fu sempre un indipendente e un solitario. Ammirava molto il lavoro e gli esiti artistici di alcuni pittori già ai suoi tempi noti al livello internazionale. Odilon Redon innanzi tutto, poi James Ensor e il norvegese Edvard Munch. E però il solo del quale dichiarò di aver subìto una certa influenza fu Henri de Toulouse-Lautrec. Tra gli scrittori, oltre al già citato Edgar Allan Poe, amò particolarmente Chateaubriand, Lautreamont, e più tardi il caposcuola e teorico dell’etica superomista, Friedrich Nietzsche.
La malattia connotò buona parte della sua esistenza. Soffriva di una dolorosa ulcera allo stomaco che lo rese spesso insonne e, per questo motivo, girovago notturno. Morì a Bruxelles nel novembre del 1946, a 65 anni, per un attacco letale di angina pectoris, patologia che lo tormentava già da una decina di anni.
Nello stile, Leon Spilliaert fu a cavallo tra Simbolismo e Espressionismo. Ma la stagione che lo caratterizzò maggiormente e per la quale oggi è più ricordato è senza dubbio quella simbolista dei primi anni del Novecento. Il Simbolismo fu dapprima una corrente letteraria e poi un movimento artistico ad ampio raggio, diffuso anche fra i pittori. Caratterizzò tutta la seconda metà dell’Ottocento e arrivò, con la Belle Èpoque, fino a circa il 1914. Fu un movimento dalle connotazioni estetiche fortissime, esplicitamente antistorico e antirealista. Ai Simbolisti non interessavano gli eventi storici, la politica e l’attualità, quanto piuttosto la Bellezza, l’Arte e la Poesia nella massima espressione. L’Arte per l’Arte era l’istanza che li muoveva e il traguardo al quale ambivano. In modo particolare premeva loro il riuscire a rappresentare ciò che si nasconde sotto la realtà visibile e percepibile con i sensi e che può essere còlto soltanto attraverso l’intuizione e un’accesa e coltivata spiritualità.

In quest’ottica le emozioni rappresentavano il veicolo ideale per sperare di poter accedere a una dimensione nascosta e sottostante (o soprastante). Pertanto caratterizzò i Simbolisti una mai celata, e anzi quasi ostentata, sfiducia nei confronti della ragione, della scienza e della tecnologia perché sentite come incapaci, o perlomeno insufficienti, di andare oltre. Vale a dire inadatte a penetrare l’Ignoto e a sondare gli oscuri abissi dell’animo umano. Parallelamente si confidava nelle esperienze estreme, a tinte forti, fino ad arrivare allo sconfinamento in regioni della mente poco conosciute, e al disvelamento delle potenzialità inattese della suggestione, del sogno e dell’inconscio. In qualche caso finanche della magia, dell’occultismo e dello spiritismo. Eredità, questa, che di lì a qualche anno sarebbe stata rilevata e approfondita a Vienna dal padre della psicanalisi moderna, Sigmund Freud. Dunque, come si vede, nessuna preoccupazione di contenuto o d’intenti civili e morali, nessuna fiducia nel Positivismo allora in voga o nelle Accademie, ma soltanto il bisogno e il desiderio di andare oltre le apparenze. Era questo lo spirito del tempo, lo spirito dell’Ottocento di cui la Francia fu la culla e che venne spazzato via in un colpo solo dall’avvento catastrofico della Prima Guerra Mondiale.
I temi dell’eccesso e della purezza nell’Arte non entrarono mai in contrasto con le istanze di compostezza classica e imitazione dei modelli antichi che, anzi, restarono sempre tra i punti fermi dell’estetica simbolista. Gli stati alterati della coscienza erano considerati gli unici strumenti validi per conoscere la Realtà e dall’artista ci si aspettava espressamente che fosse in grado di affacciarsi sull’Ignoto, il Mistero e il Perturbante. Fu dunque nel solco di questa tradizione estetica che s’inserì a pieno titolo l’arte di Spilliaert. E, di fatto, ne rappresentò l’epilogo e il segmento finale. In pittura gli artisti aderirono fermamente alla rappresentazione di soggetti ispirati dalla Natura e anche Leon, nelle sue notti insonni trascorse fra il porto e il lungomare, si misurò con questo tema raggiungendo esiti artistici di livello altissimo. Poiché dunque la realtà sensibile veniva percepita come simbolica, vale a dire come il simbolo di qualcos’altro che le sarebbe stato sotto e che essa avrebbe celato, il tema enigmatico del doppio, della metafora e dell’allusione, fu naturalmente assai frequentato. Spilliaert lo esplorò attraverso l’iconografia a lui particolarmente cara dello specchio e dei riflessi sull’acqua. Spesso, infatti, nei suoi dipinti vediamo la luna che si riflette sulla superficie nera e compatta del mare. O l’illuminazione elettrica dei lampioni che si riflette a sua volta sul manto bagnato delle strade di Ostenda.
La ripetizione quasi ossessiva di bande e fasce cromatiche, sia verticali che orizzontali, sia circolari che ellittiche, è infine funzionale alla resa di un effetto di lontananza insondabile. Ma anche, come in uno stato ipnotico indotto da uno psicanalista freudiano, al raggiungimento di una dimensione remota e rarefatta. Remota e rarefatta come la vita stessa di Leon Spilliaert, la cui storia, fatta eccezione per qualche fotografia e alcune lettere che ne raccontano le poche vicende personali, è ancora oggi avvolta nell’ombra e nel mistero.
Simone Scaloni
Lascia un commento