Kocus Haiuku: Tanka trentuno onji per l’eros di Akiko – Dona Amati

Napoli fu una delle prime città europee a divulgare agli inizi del secolo scorso la poesia giapponese, e determinante fu il contributo del poeta Elpidio Jenco che tradusse, oltre a quelle di altri poeti del paese del Sol Levante, le opere di Akiko Yosano, nata a Sakai nel 1878, della quale colse il forte tratto sensuale e innovatore.

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Akiko, la cui produzione poetica è fondamentale nella letteratura erotica nipponica, ebbe l’opportunità di leggere i grandi classici giapponesi disponendo dalla vasta libreria di famiglia. Fin dall’adolescenza scrisse tanka, brevi componimenti poetici la cui tradizione risale al V sec. d. C., e la cui struttura di 31 onji (ideogrammi giapponesi), è distribuita su una terzina iniziale seguita da un distico, con una struttura metrica di 5,7,5,7,7. I tanka, così come gli haiku, forma letteraria derivante dai primi, e dei quali ereditarono i primi tre versi, sono caratterizzati dall’intensità espressiva del sintetismo orientale.

Nella raccolta Midaregami (Capelli arruffati, 1901) che comprende oltre 400 liriche, Akiko si fa portavoce di una sensualità di delicata suggestione, tramite una tensione poetica che esalta la passione amorosa, e che ebbe buoni riscontri da parte della critica letteraria. I suoi versi, tra i più apprezzati del Novecento, anticipando il movimento di emancipazione e di libertà sessuale, contrastarono la rigida morale religiosa della società nipponica che poneva la donna in posizione ancillare rispetto all’uomo. Il suo poema Tu non morirai fu messo in musica e adottato come inno di protesta durante la guerra russo-giapponese. Autrice di saggi sulla condizione delle donne nella società giapponese, sostenitrice dei loro diritti, fondò una scuola per l’educazione femminile. Sposò l’editore della rivista di poesia su cui scriveva da studentessa che, compreso il suo talento, la incoraggiò e sostenne nella scrittura poetica. Morì d’infarto a Tokyo nel 1942.

Capelli neri
arruffati in mille trecce.
Arruffati i miei capelli e
arruffati i miei arruffati ricordi
delle nostre lunghe notti d’amanti.

 

Amore o sangue?
tutta la primavera
è in questa peonia che mi ossessiona,
scende la notte, sono sola,
sola senza una poesia.

 

Dopo il bagno
mi guardo nello specchio,
e, osservando il mio corpo,
sento che ancora rimane qualcosa
di ieri: un certo sorriso.

 

Per punire
gli uomini dei loro peccati infiniti
Dio mi ha dato
questa pelle chiara
questi lunghi capelli neri.

 

Che essere umano
potrebbe punirmi?
Non è il candore del mio braccio,
che accolse la sua testa,
degno di un dio?

 

Mezzo vestita
di una seta leggera
dal colore rosso pallido…
non pensare male: di’ loro
che si sta godendo la luna…

 

Colombe
dal tetto della pagoda
i petali dei ciliegi cadono
nel vento di primavera –
scriverò la mia canzone sulle loro ali.

 

Via Lattea:
a letto, con lui,
apro la tenda
e guardo come, all’alba,
si separano due stelle.

 

Spingendo dolcemente
ho schiuso quella porta
che chiamiamo mistero.
Mammelle turgide
strette nelle mani.

 

Senza parlar del come,
senza pensare al poi,
senza chiederci fama o nome,
qui, amando l’amore,
tu e io ci guardiamo.

 

Stringi il mio seno,
apri il velo del mistero.
Un fiore vi sboccia,
cremisi e fragrante.

 

Se qui adesso
ripenso al percorso
della mia passione,
somigliavo a un cieco
senza paura del buio.

 

Ho sentito, non so perché,
che tu mi aspettavi
e sono uscita. Nella notte
improvvisa spuntò la luna
sui campi in fiore.

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