Senza orto né porto – Roberto Marzano

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Senza orto né porto: il  blues poetico dello straniamento di Roberto Marzano

 

vacilla il baricentro instabile

dell’incoscienza non programmata

castello di carte senza alcuna speranza

 

Un poeta senza arte né parte è come un ligure senza orto né porto: sperduto, spazzato dal vento di grecale. Cifra della scrittura di Roberto Marzano, poeta e ligure, è infatti il trauma della non appartenenza, dello straniamento, dell’esilio di una vita liminare nella periferia levantina, dove vicende semplici, inanellandosi, compongono la ghirlanda pallida della nostra esistenza.

Come nota Gianni Priano nella interessante Prefazione al volume, Marzano è una figura surreale: bidello scrittore, scrive come cammina per i selciati reazionari della sua Chiavari o per i vicoli rumentosi e incrostati d’umanità della Genova portuale. Surreale è anche la sua poesia, che fa man bassa di immagini prosaiche e di una lingua vicina al quotidiano per poi esondare in una sintassi ardita, martellante, emorragica che si nutre di un lessico ricercato, mai banale. Nei versi iniziali di Stracci sembra di rintracciare una dichiarazione programmatica: Marzano intende percorre “la strada parallela al (proprio) senso dell’assurdo/fantastico rimedio alla ragione gobba, fredda/corda ottusa e penzolante/dalla forca comune del buonsenso”.

Al fare titubante di chi non ha arte né parte, un’esitazione esemplificata in certi ritmi pacati e nell’uso dei puntini di sospensione, segue l’irruzione prepotente di un blues poetico dissonante (non dimentichiamo infatti che i poeti “assorbono la musica, la dipingono in parole”), permeato di un’ironia scanzonata che si fa beffe dei disastri esistenziali e dei piccoli cedimenti d’ogni giorno. Allo sperimentalismo giocoso e “hulla-hoppeggiante” di Zizzania si alternano riflessioni impietose sulla condizione umana, rappresentata metaforicamente dalla Mosca di Kafka che, dopo una notte passata a cercare invano una via d’uscita, “s’addormenta per sempre/senza nemmeno aver dato inizio al primo capitolo”. Il retaggio montaliano, altro poeta non laureato, viene modulato in un meriggiare che non è più “pallido e assorto”, ma declinato al congiuntivo: un Mezzogiorno ipotetico “trafitto da lame di lumi/anime implumi che annaspano sbiadendo nel vespro bruno”.

I versi di Marzano fanno vibrare corde profonde in chi conosce la realtà ligure dall’interno. Chi passeggiando ha dedicato più d’una occhiata ai bassi usci sotto i portici di Chiavari conosce la “nostalgia che assale/certi cuori-occhi di chiocciola socchiusi” (Bar chiusi) e sente nelle ossa il “blando effetto sedativo dei caloriferi” delle borghesi sale da tè del corso (Stucchi). Chi ha attraversato sovente i Macelli di Soziglia e ha vissuto oltre via San Bernardo, si associa immediato all’accusa lanciata nei Piccoli fiammiferai contro una “città matrigna e bastarda”. In questo canto, contraltare della ben nota litania caproniana, Genova è fatta di “quartier(i) di sabbia” e “sbarre d’indifferenza”, dove vivono “generazioni carenti/di vitamine e d’affetto” e perfino gli elementi sono ostili: “scrostano gli intonaci i venti/scalda troppo il sole/non lava la pioggia/ma acuisce i reumatismi/e le chiazze sui muri/di muffa”. Chi conosce Sampierdarena e le cosiddette “lavatrici”, il Lagaccio e Marassi riconosce la “povera gente, nonnulla di peggio” che nelle Case impopolari ha “ortiche negli occhi”, un “freddo bastardo” e materassi con “le impronte dei calci dell’alba/che sfonda coi pugni la porta di carta”.

Le “esistenze vagabonde” di Marzano vedono la vita sgusciare in un’Arca celeste. Sono anime anonime, inghiottite dall’oblio del mondo e in tutto simili alle Città dimenticate, che Senza finestre “si suicidano col sesso” o sprofondano in “rimedi alcolici, sorsi disperati” nel tentativo d’annacquare l’Amaro in bocca. Il poeta e gli amanti della poesia, però, possono contare su un rimedio più semplice, a portata di mano: una “grossa latta di conserva/piena di poesia a lunghissima scadenza/da aprire prontamente in caso di scoraggio”. Una grande latta di conserva come Senza orto né porto di Roberto Marzano.


Michela Pistidda

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