Quando Boetti e la Arbus si fecero in quattro: la moltiplicazione di sé nella cultura beat e nell’estetica concettuale

Se negli anni Sessanta aveste fatto un viaggio in America, più esattamente a New York, e vi foste attardati a passeggiare lungo le avenues di Manhattan o sotto gli aceri e gli olmi di Central Park, non è escluso che avreste potuto imbattervi in una fotografa armata di una Mamiya o di una Rolleiflex con un grosso flash che, con sensibilità e savoir faire, se aveste destato la sua curiosità, probabilmente vi avrebbe convinto a posare per lei. Questa quarantenne inquieta e solitaria, questa donna sottile con la minigonna e i capelli a spazzola, autentica beatnik sempre in bilico tra lo scintillante mondo della moda in cui lavorava e la cultura beat del Greenwich Village in cui abitava, era Diane Arbus.diane_arbus_with_her_photo_of_a_boy_holding_a_toy_grenade_in_central_park_ny_1970_stephen_frank

Soltanto qualche anno prima, ad esempio verso la metà degli anni Cinquanta, un incontro del genere sarebbe stato assai più difficile. In quel periodo, infatti, la Arbus trascorreva la maggior parte del tempo a scattare fotografie al chiuso di atelier di moda, teatri di posa e set cinematografici. Il suo pane quotidiano erano dunque attori e modelle che però, sta di fatto, non furono mai particolarmente contenti del modo in cui Arbus li rendeva immortali. Tuttavia, a un certo punto della sua ormai avviata carriera, uno scatto forse di troppo, come un clic e un tuono, dovette esserle fatale dal momento che qualcos’altro scattò irreversibilmente dentro di lei. Per qualche ragione la Arbus si tolse l’abito che indossava e infilò una pelliccia (fur in inglese), tornando ad essere un anatroccolo dal cigno che era (o che avrebbe potuto essere), o già farfalla rifacendosi crisalide. Si tagliò i capelli da maschio, appunto come un anatroccolo, e si sdoppiò. Già intorno al 1960 Diane Arbus si era trasformata in un’altra persona. Iniziò allora, e non smise più per undici anni consecutivi, a ritrarre persone apparentemente normali ma il più delle volte segnate da un inquietante disagio esistenziale, e soggetti ai margini della società (borderline e dropout, diremmo oggi) come freaks, nani, spogliarelliste, acrobati, giocolieri, fenomeni da baraccone ambulante, alienati mentali, dementi e handicappati.

Non fu certo la prima a cimentarsi nel ritratto fotografico di soggetti così fuori dell’ordinario. Prima di lei ci avevano già pensato, fra gli altri, Weegee e Brassai. Ma anche Lewis Hine, Bill Brandt, Dorothea Lange e Ben Shahn si erano pionieristicamente misurati con quella che venne poi definita la fotografia-documento. Gli stessi Walker Evans (collega e ammiratore che stimava la Arbus e la incoraggiava a proseguire nella sua ricerca estetica) e Lisette Model (amica e insegnante che tra il 1956 e il 1957, oltre ad introdurla all’opera di August Sander, fece per lei da figura-cerniera nel momento del passaggio da una personalità artistica a un’altra) con il loro lavoro si occupavano di documentare tematiche sociali affini, più o meno attinenti alle stesse categorie umane. Qualche tempo dopo si sarebbe dedicato a soggetti analoghi anche Stanley Kubrick, un altro amico della Arbus che negli stessi anni muoveva i primi passi nel mondo della fotografia e che in seguito, divenuto un regista acclamato, tanto l’avrebbe omaggiata in più d’uno dei suoi celebri capolavori cinematografici. Come ad esempio in The Shining del 1980 (e non solo nelle sequenze in cui le due gemelle, simbolo archetipico della personalità dissociata, appaiono nei corridoi dell’allucinante Overlook Hotel,quanto più probabilmente nell’intera pellicola), e forse anche in Eyes Wide Shut del 1999, l’ultima fatica dell’autore, nel tema portante della festa in maschera e quindi ancora del doppio o della scissione identitaria. Ma, a differenza degli illustri colleghi, nel suo procedere la Arbus sembrava tormentata da un fuoco di altra natura e finì con l’accanirsi sull’acceleratore della propria arte fino al punto di non ritorno.

Cosa le era successo? Cos’era stato a determinare una deviazione di rotta così radicale che con tanta evidenza si sarebbe poi impressa nella diane_arbusproduzione fotografica successiva fino al 1971, l’anno della sua tragica scomparsa? Di sicuro il clima politico e sociale dell’epoca e la generale atmosfera hippie di quel periodo (in cui scendere in piazza e vivere on the road con gli altri e per gli altri erano diventati una consuetudine diffusa non soltanto negli Stati Uniti) giocarono un ruolo decisivo e contribuirono all’attivazione di questo processo di apertura ed espansione dei propri orizzonti individuali. Ma nel caso della Arbus, con ogni evidenza, le cause reali che innescarono la trasformazione furono altre. Si erano risvegliate forze oscure molto più profonde.

Diane Nemerov nasce a New York all’inizio degli anni Venti in una ricca famiglia ebrea di origini polacche, proprietaria della catena di negozi di pellicce Russek’s. Il padre David, dopo aver lasciato la presidenza dell’azienda di famiglia nel 1957, si mette a fare il pittore conseguendo un discreto successo commerciale. Diane è la seconda di tre figli. Il fratello maggiore Howard, più grande di tre anni, diventerà famoso come uno dei maggiori poeti americani del Novecento, mentre la sorella minore Renée farà la scultrice. A 12 anni il padre manda Diane a scuola di disegno da Dorothy Thompson, una dipendente di Russek’s, che le insegnerà ad apprezzare gli acquerelli di George Grosz del quale era stata allieva. A 14 conosce e si innamora di un altro commesso di Russek’s, Allan Arbus, che sposerà quattro anni dopo, nel 1941. Diane ha soltanto 18 anni. Trascorrono altri quattro anni e nel 1945 Diane dà alla luce la sua prima figlia, Doon. Sempre nel 1945 ha inizio il vero e proprio sodalizio artistico tra Allan e Diane cha da questo momento in poi lavoreranno sempre insieme come fotografi di moda per le più importanti riviste del settore come Glamour, Vogue, Harper’s Bazaar. Tra i colleghi vi è anche Richard Avedon.

Nel 1947 Diane studia per un breve periodo con Berenice Abbott. Sette anni dopo, nel 1954, nasce la seconda figlia, Amy. È in questo periodo che Diane conosce Stanley Kubrick, giovane fotografo alle prime armi, e approfondisce ulteriormente lo studio della fotografia con Alexey Brodovitch. Nel biennio 1956-1957 Diane studia con Lisette Model che rappresenterà per lei il vero trampolino di lancio nella sua ricerca artistica personale. Nel 1958 Allan e Diane conoscono Robert Frank e sua moglie Mary nel pieno delle riprese del film Pull My Daisy,di cui Frank è il regista, che presto diventerà il film-manifesto della cultura beat e di tutta la beat generation. Ma in questi anni il matrimonio va in crisi e nel 1959 Allan e Diane si separano ufficialmente (divorzieranno dieci anni dopo, nel 1969). Nello stesso arco di tempo, cioè tra il 1957 e il 1960, Diane scopre l’Hubert’s Museum, una sorta di strano baraccone delle meraviglie (in pratica un teatro di freakshow), situato all’angolo fra la 42ma strada e Broadway, dove si esibiscono figure eccentriche e fuori dal comune che la Arbus fotograferà spesso nel corso degli anni a venire. Un altro luogo in cui la Arbus si reca frequentemente è il Club 82 situato nella lower Manhattan e popolato, anche questo, da una serie di personaggi molto particolari. Per giungere, negli ultimi tempi, a ritrarre nudisti, prostitute e frequentatori di bordelli.

Il 26 luglio del 1971, nel giorno del 43° compleanno dell’amico Stanley Kubrick allora impegnato nella realizzazione del suo A Clockwork Orange (Arancia Meccanica), Diane Arbus si suicida ingerendo una dose massiccia di barbiturici e tagliandosi le vene dei polsi nella vasca da bagno del suo appartamento del Greenwich Village a New York. La troveranno un paio di giorni più tardi, già in avanzato stato di decomposizione. Aveva sempre sofferto di crisi depressive nel corso di tutta la vita e, in una sorta di sdoppiamento ormai avvenuto e vissuto come irreversibile, non aveva più voluto abbandonare il cognome del marito Allan anche dopo il divorzio.

Tornando indietro di due o tre anni, precisamente alla primavera del 1968, in Italia un giovane artista di Torino spediva a una cinquantina di amici una cartolina postale da lui intitolata Gemelli che, attraverso un accurato fotomontaggio, mostrava l’autore dell’opera per mano a un altro se stesso, in uno sdoppiamento perfettamente speculare. Duplicazione dell’identità confermata dall’enigmatica ma eloquente intuizione dell’artista di interporre la lettera E tra il suo nome e il suo cognome e, sempre in quello stesso 1968, di intitolare Shaman Showman una sua personale alla Galleria de Nieubourg di Milano.

A fare tutto questo era l’allora ventottenne Alighiero Boetti, un conte piemontese tenebroso e scapigliato, già membro della corrente artistica italiana detta Arte Povera poi confluita in quella Concettuale, che dal 1972 in poi prese definitivamente a firmarsi Alighiero e Boetti. Di lì a qualche anno, nel corso del processo creativo di una delle sue opere più famose (la Mappa), sarebbe infine arrivato non solo a sdoppiarsi ma addirittura a triplicarsi, rispettivamente, in un bambino che ricalca le figure dai giornali (nello specifico, le sagome delle nazioni prese dal quotidiano torinese La Stampa), in un imprenditore alberghiero all’estero e in una ricamatrice afghana.

Il 15 marzo del 1971 Alighiero Boetti, un po’ per caso, parte per la prima volta per l’Afghanistan. Vi rimarrà per più di un mese e presto inizierà aalighiero-boetti-b considerare questo Paese la sua seconda patria. Circa quattro mesi dopo, il 26 luglio, Diane Arbus si toglie la vita nel suo appartamento del Greenwich Village a New York. A settembre Boetti è nuovamente in Afghanistan, in questo secondo viaggio accompagnato dalla moglie. Qui, in un ulteriore sdoppiamento, scinde il suo nome di battesimo in Alì Ghiero, contestualizzandolo al luogo in cui si trova. Ha con sé il progetto dell’opera Mappa, cioè il planisfero del globo terrestre sul quale ogni nazione verrà poi tessuta con i colori della propria bandiera. A Kabul Boetti inizia subito a intrecciare relazioni con la popolazione locale e, improvvisandosi imprenditore alberghiero, nel quartiere residenziale di Sharanaw apre il One Hotel che diventeràla sua residenza afghana.

Nell’aprile dell’anno seguente, il 1972, Boetti partecipa alla mostra collettiva intitolata De Europa che si tiene presso la Galleria John Weber di New York. In autunno Boetti lascia la sua Torino e si trasferisce a Roma. Andrà ad abitare in un bell’appartamento con lo studio le cui finestre danno sul campanile di Santa Maria in Trastevere. È in questo periodo che l’artista ratifica ufficialmente la decisione presa quattro anni prima di firmarsi Alighiero e Boetti, formalizzando in maniera definitiva lo sdoppiamento simbolico tra la sfera privata rappresentata dal nome e la sfera pubblica rappresentata dal cognome.

In estate, in occasione della XXXVI edizione della Biennale di Venezia, Gino De Dominicis, un artista marchigiano anch’egli attivo in quegli anni e ancora oggi molto discusso, si era presentato in mostra con il suo atemporale e arbusianamente aristocratico ragazzo Down seduto in un angolo, ovvero la 2° Soluzione di Immortalità. A quella stessa Biennale del 1972 il pubblico ammirò anche i ritratti fotografici di Diane Arbus che, a un anno esatto dalla scomparsa, fu la prima fotografa americana ad essere ospitata ed esposta in laguna.

Simone Scaloni

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