Ho fame della tua bocca, della tua voce, del tuoi capelli
e vado per le strade senza nutrirmi, silenzioso,
non mi sostiene il pane, l’alba mi sconvolge,
cerco il suono liquido dei tuoi piedi nel giorno.
Sono affamato del tuo riso che scorre,
delle tue mani color di furioso granaio,
ho fame della pallida pietra delle tue unghie,
voglio mangiare la tua pelle come mandorla intatta.
Voglio mangiare il fulmine bruciato nella tua bellezza,
il naso sovrano dell’aitante volto,
voglio mangiare l’ombra fugace delle tue ciglia
e affamato vado e vengo annusando il crepuscolo,
cercandoti, cercando il tuo cuore caldo
come un puma nella solitudine di Quitratúe.
Pablo Neruda
Apriamo con Pablo Neruda, con un testo intriso di desiderio e sensualità, la presentazione delle opere di Paola Celi, artista abruzzese nata in Svizzera, la cui bottega d’arte vicino Ascoli Piceno è l’atelier dove i colori si mescolano alle emozioni dell’universo femminile: la Donna come elemento fondante dell’Eros.
Nei versi del poeta cileno la parola si fa materia viva, calda e concreta. Neruda concatena attraverso la retorica dell’addizione e del climax un senso di brama primordiale: la fame è l’istinto che muove l’uomo alla sopravvivenza e alla ricerca dell’appagamento dei sensi e delle necessità
fisiche. Ci muoviamo qui in un realismo estetico fortissimo.
Il pane di cui si va in cerca sono le “mani color di furioso granaio”, la “pallida pietra delle unghie”, la “pelle come mandorla intatta”, “l’ombra fugace delle ciglia”. Ma è forse il primo verso il più intenso: “Ho fame della tua bocca”. La bocca, dunque, come tramite per il nutrimento del corpo e dello spirito, la porta delle parole veicolate dalla mente, il principale strumento di piacere.
La serie di Paola Celi che presentiamo qui esplora il medesimo tema, quello della Bocca, e sostanzialmente attraverso la stessa retorica del climax e dell’addizione. Osserviamo tre tavole dell’artista alle quali abbiamo voluto affiancarne una quarta del grande maestro Tom Wesselmann, per vicinanza stilistica e contenutistica.
Le quattro opere proposte possono essere interpretate come i quattro momenti di un “percorso erotico” sviluppato secondo una logica di intensità crescente. Nei quattro pannelli ci troviamo sempre di fronte alla visione parziale del volto lunare e opalescente di una giovane donna
e, soprattutto, delle sue bellissime labbra scarlatte. Nel primo dipinto della Celi la Bocca è impegnata nell’atto di assaporare una fragola, simbolo eterno di piacere e vanità.
È come se fosse un pasto afrodisiaco. Nel secondo, invece, una seconda figura tinge la Bocca di rosso ciliegia per mezzo di un’argilla cosmetica. È questo il momento della preparazione alla seduzione. Nel terzo pannello la Bocca è finalmente libera e dischiusa. È l’atto d’amore in
sé, nel momento del suo culmine estatico. Infine, nel dipinto di Wesselmann la Bocca fuma una sigaretta, a indicare il compimento delle fatiche d’amore e la distensione sognante che ne deriva.
I quattro pannelli erotici possono essere letti anche come una “Allegoria dei Cinque Sensi”.
Il primo dipinto, quello della fragola, simboleggia il Gusto. Il secondo, nel contatto di un’altra persona e di un oggetto quale il rossetto, rappresenta il Tatto. Il terzo, dal momento che la Bocca è dischiusa in un sospiro (o in un rantolo di piacere, o magari nel verso cantato di una chanson d’amour), non c’è dubbio che simboleggi l’Udito. Wesselmann, con l’aroma del tabacco che arde come l’essenza di una resina orientale che brucia ed entra ed esce dalle cavità nasali, è l’Olfatto. E la Vista? La Vista la rappresentiamo noi spettatori che siamo invitati, come sempre accade di fronte alle opere d’arte figurativa, ad ammirare e a farci rapire dalla bellezza della Pittura.
Nei suoi carboncini e olii su tavola, quindi attraverso l’olio e la cenere, Paola Celi stuzzica l’immaginario dello spettatore con uno stile fortemente grafico e bidimensionale.
L’artista solletica l’inconscio dell’osservatore con un tratto delicato, ma nel contempo incisivo e provocatorio, e colori essenziali, quasi primari, che si traducono in campiture cromatiche uniformi e compatte. Le tavole proiettano un’immagine stilizzata e idealizzata della Donna, sospesa
in una dimensione mitica e iconica, potremmo anche dire stereotipica, fuori del Tempo e dello Spazio, o nello Spazio e nel Tempo di sempre. Cionondimeno se ne colgono influenze e motivi ispiratori precisi e circostanziati: gli Anni Ottanta hanno lasciato un segno profondo. Potremmo essere nella “Milano da bere” di fotografi e modelle, nel periodo in cui si ascoltavano i Duran Duran, gli Wham e i Culture Club attraverso le indimenticate cassette del walkman. Ma piuttosto sono brani nostalgici e sentimentali come “Sei Bellissima” di Loredana Bertè e “Paradise” di Phoebe Cates, oppure più ironici e materialisti come “Call me” di Blondie, “Girls Just Wanna Have Fun” di Cyndi Lauper e “Material Girl” di Madonna (che fra l’altro ha origini abruzzesi come l’artista in esame), a fare da colonna sonora ideale alle opere di Paola Celi. Per ultimo, forse il più appropriato di tutti, è ancora un brano di Madonna: “True Blue” del 1986.
A un primo sguardo, infatti, forte è la tentazione di ascrivere lo stile della Celi alla Pop Art degli anni Sessanta e Settanta di artisti americani come James Rosenquist in opere come lo “Studio per Marilyn” del 1962. In questo senso, ci è sembrato doveroso omaggiare Tom Wesselmann, che pure ebbe un rapporto controverso con la corrente Pop.
In Celi tuttavia non vi è traccia alcuna di denuncia sociale o di satira dei suoi tempi, né reimpiego di ready-made o materiali prelevati tout court dalla cultura di massa. Ci troviamo, piuttosto, in un ambito arcaico (e arcano) di miti pagani e tradizioni popolari. Siamo qui alla presenza della testimone di una cultura ancora alimentata da un forte e profondo rapporto con il Mito. In quest’ottica saltano all’occhio i parallelismi e le assonanze con le liriche di Pablo Neruda o con la prosa di altri autori sudamericani quali Gabriel Garcìa Màrquez ed Isabel Allende. Parliamo, dunque, di un contesto fiabesco marcatamente Naif, caratterizzato da atmosfere incantate e sospese, rarefatte, ma che affonda le radici in profondità, in credenze antiche e in sistemi di valori concreti sempre validi e sempre pronti a riattivarsi. Ci troviamo, insomma, di fronte a una pittrice che fa della potenza magica del femminile, attraverso il paganesimo delle tradizioni popolari e corredata di tutto il suo repertorio rituale ancestrale, la sua cifra stilistica e la sua temibile arma di seduzione.
Dalle sue opere Pop Naif sfacciatamente frontali, poetiche e maliziose ma anche terribili e pronte a ingaggiare battaglia con lo spettatore, Paola Celi, nuova Cupra picena dal volto incipriato, ci invita a far lavorare l’immaginazione, a cedere al desiderio e a pendere voluttuosamente dalle
sue labbra.
Simone Scaloni
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