

Potremmo ritirarci in paese, ma solo per spaesarci. Conteniamo questo desiderio nel solco lasciatoci da un etimo che consapevolmente tradiamo, per rimescolarlo a nostro piacimento. Perché è in un ager pagensis il nostro paese, nel Villaggio che è anche Castello, ma non Patria o Nazione, né asfittica cittadina. Il paese che può spaesarci è situato su un “colle”, su “picco di monte”, un campo nel quale mettere al riparo i corpi, gli affetti, i beni della nostra comunità. Un campo sicuro, perché fortificato, non dall’uomo, ma dalla natura; su un colle, appunto, o su un picco di monte. Un campo sicuro che assicura, anche, perché preserva uno spazio che si sottrae alla religione del nostro tempo. Nel paese che spaesa crescono i pagani. Abitatori del pago, possono farsi guardiani degli dei di un tempo altro, devoti di dei falsi ai cittadini, ma sacri ai paesani. Come pagani, abitano il paese per spaesarsi.
Abitare il paese da pagani è quindi spaesarsi, aperti all’abisso di un culto che solo nel nostro villaggio è investito del sacro.
Lo stato di eccezione è proclamato, dal basso. L’Apocalisse culturale, nella forma della chiacchiera quotidiana, non è più profilo all’orizzonte, ma realtà vissuta nella polis. E non ha senso fuggire, se non per divenire abitatori del pagus. Il solo luogo in cui il rito non è immediatamente sussunto alla chiacchiera. E solo nel rito non desacralizzato l’arte può sottrarsi alla sua fine, che è la fine dell’uomo.

Ma l’arte è allora resistenza agli dei del nostro tempo, desacralizzati all’origine, secolarizzati se non da sempre nel secolo. Occorre perciò volgere lo sguardo alla fortezze, dove gli uomini custodiscono il sacro nella devozione agli dei di un tempo altro. I pagani in questo senso resistono, e solo loro, spaesandosi.
A volte gli artisti smettono di resistere. Depongono le armi, per conservare, quasi sempre ingannandosi, quel po’ di gloria che il complicato intreccio di mercato e riconoscimento ha concesso loro. Oppure sconfitti dalle cose piccole, incalzati o schiacciati da un destino umano che storna lo sguardo, sfila gioie dalle dita, aggrava lo sguardo e disinnesca infine quel miracoloso congegno nel quale tecnica ed estro, misteriosamente, si articolano per dare vita al genio creativo. E allora l’arte si accomoda, stanca prende la forma che trova. E ciò che trova sono le immagini, i suoni, i colori, che non sono altro che il loro scorrere, che non richiamano attenzione, insensibili alla cura. Disattenti e incuranti, gli artisti sono allora conformi alla patria, tradendo il paese nel quale pure, un giorno, hanno sentito di potersi spaesare.
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