Omaggio a Vespignani

Avendo scelto di scrivere un articolo sul pittore romano di Portonaccio Renzo Vespignani (Roma, 1924 – 2001), e avendo letto il suo Diario 1943-1944, dopo qualche esitazione ho ritenuto che la soluzione migliore per accompagnare le immagini di alcune sue opere fosse quella di lasciare libero corso alle parole stesse dell’autore, tuttavia arbitrariamente rimescolate e assemblate in maniera nuova, così da accrescerne ulteriormente lo struggente fascino evocativo. Ne è scaturito una sorta di fantasioso e suggestivo collage letterario che ripercorre, di fatto, un’unica stagione dell’anno: l’inverno. Quell’inverno alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Parole poetiche e bellissime, allora, che volano via con il fumo dei comignoli accesi ai primi freddi dell’autunno, per tornare poi con le rondini nella brezza fresca d’inizio primavera.

Da tutte queste foglie cadute viene un odore dolce di decomposizione, come quello di San Lorenzo tre giorni dopo il bombardamento.

vespignani-periferia-1957
Periferia, 1957

Vento freddo e tagliente dal Ponte Tiburtino, e fumo sfilacciato dal deposito delle locomotive. Ancora polvere dal mucchio di macerie che copre San Lorenzo. Nel primo pomeriggio sono tornato allo scalo, verso Sant’Agnese. Mi sarebbe piaciuto disegnare i vagoni squarciati, ma era quasi l’ora del coprifuoco. Malgrado le rovine, nel paesaggio prevale un senso di pace e d’innocenza. Il ponte della ferrovia che si colora di rosa nell’ora del tramonto. Le macchie d’erba bruciata nelle fenditure del marciapiede, una striscia di cielo pulito sul muro del cimitero, il gelo dalle case bombardate. Le panchine del giardinetto divelte, gli alberi gremiti di uccelli che si preparano a passare la notte. Il loro brusio spaventoso nella città morta.

Dalla finestra della cucina guardo annottare nel cortile. Qualcuno imbocca frettoloso il portone, tra poco è il coprifuoco. Poi mi metto accanto al braciere. Sono torturato dai geloni, come da ragazzino. Ignazio dorme, la testa tra i gomiti. La mamma fissa i carboni e prega, mentre la luce si fa violetta. Non abbiamo voglia di parlare. Dormiamo tutti in una stanza, e uniamo i letti per tenerci caldo. Mamma e Teresa abbracciate, io e i miei fratelli nel lettone a due piazze, senza spogliarci.

Ricordo l’estate scorsa come un tempo che non c’è mai stato e che qualcuno racconta a mezza voce, sono di nuovo bambino, per addormentarmi. Immagini senza consistenza, rubate da uno specchio appannato. Ci sono giorni che sento, con straordinaria evidenza, l’odore caldo che saliva dalla strada. Odore di catrame e foglie secche. E la scuola finita, le pigrizie godute nel letto, la tela e i colori pronti, la tazza del caffellatte sul tavolo. Poi un vuoto improvviso, una frattura del tempo. Il giorno del bombardamento.

Renzo-Vespignani-Periferia-con-gasometro-1946
Periferia con gasometro, 1946

In una natura morta, dice Montanarini, puoi metterci questa guerra e tutte le guerre del mondo. Mi piace molto lavorare di notte, chiuso in cucina con le mie lastre. Il nero dell’incisione è insondabile e attraente come il buio degli spaventi infantili. Mafai ha detto a Gentilini, e Gentilini me lo riferisce, che i miei disegni somigliano troppo a quelli degli Espressionisti tedeschi. Come Grosz, bisognerà copiare i disegni graffiati nei pisciatoi?

Tra pochi giorni è Natale, una gran melanconia, e insieme una voglia irrazionale di festeggiare la propria giovinezza correndo a perdifiato nelle strade. Sarà per la fame, ma non ricordo un inverno più freddo di questo. Ho le mani piene di geloni e non posso incidere. L’acido brucia come fuoco. Sotto la Galleria Colonna un cerchio di gente affascinata: c’è un soldato morto, senza scarpe, davanti alla vetrina del tabaccaio. In quel momento sono cosciente della smagliante nitidezza dei pensieri, della loro densità. Insieme al fatto, grottesco e umiliante, che una così eccezionale capacità di intendere abbia per oggetto il nulla. Ho notato che la paura, soprattutto se patita in continuazione per ore o per giorni, acuisce il senso del meraviglioso.

Non è terribile cambiare le bende ad un amico e trovare bellissimo il colore stinto del sangue, come di un fiore appassito tra le pagine di un libro? Rinaldo dice che sono attratto dalle case in rovina…e poi dalla solitudine dei luoghi. Come se non camminassi per strade vere ma nel loro sogno. Rinaldo mi confessa che sente la morte vicina, come se gli soffiasse alla nuca, sempre. Saremo ancora vivi a primavera, quando arriveranno gli Americani?

discarica
discarica

Oggi sono smarrito e trovo sempre più difficile legare le passioni al segno e al colore. È terribile scoprire con quanta facilità l’arte possa ridursi a una serie di gesti meramente fisici, privi di senso. Mi domando anche se questa nuova e confusa modestia (insieme alla smania, anch’essa nuova, quasi voluttuosa, di essere artista) non sia effetto di paura invece che di maturità. Ma forse, ad averne esperienza, la pittura può dare forma ai mostri indistinti della paura meglio delle parole. La parola tende a definire il mondo, che invece è spettrale e innominabile. Io sono in qualche punto di questa Europa, nel buio. Non so dell’esistenza di altro. Questa guerra è tutto quello che ho. Il passaggio dalla guerra immaginata a questa che conduciamo, sbandati e disarmati, non è stato brusco come qualcuno crede. Da quanti anni la scuola ci avvezzava alla morte? Il potere più feroce è quello che oltre a mistificare ti vuole rabbonire.

Gentilini mi dice che la pittura parla solo di se stessa, come la musica. Ma io vorrei dipingere, insieme alla realtà della forma, la realtà della realtà. Sì, bisogna dipingere la realtà e non le sue fattezze. Ma la realtà, in questi giorni, ha fattezze che non si possono ignorare. E tanto crudeli che non sempre si riesce a dosarle nella compostezza della forma.

Freddo crepuscolo di marzo, col sole che sfiora i cipressi del cimitero e la gente intirizzita. Non so che ombra s’è attaccata al viso di tutti. Certo che ognuno sembra essersi composta una fisionomia cattiva e insieme timidissima. Me ne sto in casa a fissare i vetri ghiacci, il cielo che verso sera si fa verde, il cuore in un pugno. Guardo i miei disegni, dovessi mai scoprirvi un’immagine viva. E invece non trovo che umore nero e fatica. Chissà che direbbe la gente se mi vedesse disegnare a lume di candela, con le mani fasciate…un pazzo, un vigliacco? E il mio lavoro è assurdo in se stesso? Solo due mestieri sembrano necessari, quello del fuggiasco e quello dell’inseguitore. Una così estrema semplificazione dell’esistenza ci costringe a pensieri assolutamente piatti, e alla dipendenza quasi religiosa da oggetti banali. Esempio: da due giorni non si trovano i fiammiferi, e dunque si parla solo di fiammiferi. La funzione è tutto.

Agli angoli delle strade vendono e scambiano di tutto. Pellicce, vecchi maglioni, tappeti, scarpe, soprammobili, sciarpe, pacchi di pasta muffita, sacchetti di polenta, bucce di piselli e una strana farinata ottenuta col sangue rappreso. La chiamano codino e insieme ai 75 grammi di pane (fatto di ceci, scorza d’olmo e foglie di gelso) è tutto quello che si mette in tavola.

Il quartiere e i prati intorno alla ferrovia, quasi neri sotto il bianco elettrico dell’alba. E in quest’alba rosa e grigia tre soldati tedeschi intorno a un rogo di traversine ferroviarie. Fogliacci di carta volano come gabbiani nel cono rosso cupo del fuoco. Davanti alberi radi e un capannone in rovina. Il tetto sfondato e bruciacchiato sembra una bocca spalancata.

vittima 1963
vittima, 1963

Con Rinaldo e Armando al sole, in terrazza, tra le lenzuola che si muovono piano come vele. Le giornate sono miti e noi saliamo volentieri quassù, come facevamo da ragazzini, per goderci la solitudine e il silenzio che sembra salire dalla campagna. In queste ore tutte nostre la vita prende il sopravvento sulle paure incattivite, sull’asfissia delle stanze ancora nel gelo invernale.

Mai dimenticherò la mattina che entrammo in quel villino. Era affogato in un giardinetto di rampicanti e di pergole così fitte che quasi facevano buio nelle stanze. Una strada silenziosa in un quartiere silenzioso, a ridosso della Salaria. Qualcuno spiava dalle finestre quando siamo arrivati col nostro carrettino di sinistrati. Dovevamo avere un’aria così sparuta!

Sarà per il quartiere che è lontano dagli obiettivi militari, ma le giornate sembrano più calme: ho ripreso la bicicletta di mio cognato e me ne vado verso i prati dell’Acqua Acetosa e le rive verdissime dell’Aniene. Il vento della corsa è già tiepido. È una periferia così diversa, questa, da quella del Portonaccio, serena e dolce come un paesaggio di Constable.

La notte m’arrampico sul tetto, per una scaletta arrugginita. Fa ancora freddo, si vedono luci violette, come fuochi fatui, e un albeggiare rossastro verso i Colli Albani, di artiglierie e traccianti. Qualche volta i bengala fanno giorno dalla parte di Ciampino. Due o tre volte Saverio m’ha raggiunto, in silenzio, e s’è appollaiato proprio sulla cima del tetto, le ginocchia strette al petto. Sembrava un avvoltoio.

Spesso, quando il tempo è buono, con mamma e Teresa ci allunghiamo fino ai prati della Signora a tagliare cicoria. E sono pomeriggi bellissimi, nell’erba pulita dalle piogge di primavera, e le mani nella terra che sembra cosa viva. C’è un incanto, una tregua miracolosa, nei nostri gesti da contadini, mentre il sole rimbalza dalle finestre del quartiere alto sopra di noi.

E poi con la bicicletta in direzione del Gasometro, evitando i ponti che sono minati. Da lì si dovrebbe vedere qualcosa della battaglia. E invece incontro solo ragazzi che corrono da un portone all’altro dei viali deserti. Non so perché, penso al vento in un campo d’erba alta.

Simone Scaloni

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*