Ciao Michele, innanzitutto parlaci di te: la tua formazione, le traduzioni che hai all’attivo, i tuoi attuali progetti. |
La mia prima vera traduzione risale al 2000, nel pieno degli studi universitari. Non ho una formazione specifica orientata alla traduzione: gli studi di lingue e letterature straniere moderne mi hanno aiutato poco o nulla in questo senso; la motivazione e la passione per questo lavoro sono nate sul campo e grazie a un profondo amore per la lingua inglese che coltivo da una ventina d’anni. A tutt’oggi, fra libri per ragazzi, romanzi, raccolte di racconti e saggi di vario genere (soprattutto musicali) ho all’attivo oltre sessanta titoli. Attualmente sto traducendo The Believing Brain, un interessantissimo saggio di Michael Shermer, direttore della rivista americana «Skeptic». Seguirà Hercule Poirot and the Greenshore Folly, un inedito di Agatha Christie.
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Ti sei quindi occupato di narrativa come di saggistica, e all’interno della narrativa hai avuto molte esperienze nella traduzione di letteratura d’infanzia. Come cambia il ruolo del traduttore rispetto al genere? |
Tradurre per l’infanzia richiede un equilibrio difficile da definire, che si apprende con l’esperienza: da un lato occorre trovare soluzioni “a misura di bambino”, dall’altro non bisogna eccedere nel semplificare e “bambineggiare”, per evitare di risultare paternalistici (per esempio, mai aggiungere diminutivi assenti nell’originale). In ogni caso, ciascun genere richiede competenze specifiche. |
Ti sei mai occupato di poesia? In caso contrario ti piacerebbe? |
Mi è capitato di tradurre testi in rima per bambini, non poesie per lettori adulti. Da appassionato musicofilo e musicista dilettante mi piacerebbe provare, per misurarmi con un tipo di traduzione che richiede massima attenzione all’aspetto ritmico e, per l’appunto, musicale del linguaggio. |
Entrando nel vivo del processo traduttivo, quali sono le maggiori difficoltà del mestiere? |
Come accennavo prima, ogni genere ha le proprie caratteristiche e difficoltà. Per tradurre saggistica, per esempio, occorre saper svolgere ricerche mirate ed efficaci, e per spaziare da un genere all’altro bisogna sapersi calare in maniera quasi “camaleontica” nei vari registri: even if lo puoi tradurre “malgrado” in un romanzo o in un saggio, non in un libro per bambini. Nel complesso, c’è una “regola d’oro” che vale sempre: tradurre bene significa saper dare al lettore l’impressione di leggere un testo scritto nella propria lingua, vale a dire non tradotto. Il che ci porta al “cuore paradossale” dell’arte del tradurre: più il traduttore è bravo, meno si avverte la sua mano. È il tema, ampiamente discusso, del “traduttore invisibile”.
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Puoi farci qualche esempio delle trappole linguistiche di fronte alle quali il traduttore rischia di ritrovarsi lost in translation? |
Uno dei rischi maggiori è quello dei calchi: trovandosi continuamente a contatto con una lingua straniera, è facile che il traduttore, senza rendersene conto, riproduca nella lingua d’arrivo strutture tipiche (nel mio caso) dell’inglese ma non dell’italiano. A volte è difficile tracciare un confine netto tra ciò che è accettabile nella nostra lingua e ciò che non lo è, e mi è capitato di trovarmi in disaccordo con i miei revisori: le lingue sono sistemi in continua evoluzione, anche e soprattutto in seguito alle traduzioni dall’una all’altra (vedi il verbo “realizzare” usato nel senso dell’inglese to realize), ed esistono strutture linguistiche “borderline”. Ma ciò non toglie che ci siano calchi immediatamente riconoscibili come tali, per quanto diffusi: pensiamo per esempio a “prendere un respiro” (fino a prova contraria, in italiano i respiri si fanno). |
Quali sono le maggiori difficoltà di resa a livello stilistico? |
In generale, possiamo dire che tradurre narrativa richiede uno sforzo ininterrotto per “annullarsi” nella voce dell’autore: una certa dose di soggettività è inevitabile, ma occorre resistere alla tentazione di “abbellire” il testo, riscriverlo mettendoci del proprio (non è facile, specie quando si traduce per la/e prima/e volta/e) e soprattutto sciogliere i nodi, spiegare ciò che l’autore lascia volutamente oscuro. Nella saggistica, genere per definizione denso e “informativo”, occorre impostare sintatticamente i periodi in modo da renderli chiari e “naturali” senza perdere per strada nessun elemento: un risultato che, essendo l’inglese per sua natura più sintetico e quindi in qualche modo più “nonfiction-oriented” rispetto all’italiano, spesso si ottiene inserendo subordinate o addirittura sdoppiando i periodi.
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La traduzione quindi è un processo che comporta necessariamente uno spaesarsi, un rinunciare alla propria identità linguistica per approdare nella terra di nessuno tra due universi culturali, farsi ponte per il testo e per i lettori. Ci sono particolari strategie che metti in atto per raggiungere questa particolare posizione di equidistanza e al tempo stesso di compartecipazione che consente di trasporre contenuti e forme linguistiche da una lingua all’altra? |
Difficile rispondere senza fare esempi concreti, in ogni caso la traduzione (non sono certo il primo a dirlo) è un processo di negoziazione continua: l’equidistanza è un ideale a cui si tende costantemente, ma a volte, per garantire la leggibilità del testo, sacrificare (ed eventualmente “italianizzare”) qualcosa è inevitabile. Va inoltre ricordato che esistono lettori e lettori: chi legge un saggio è mediamente attrezzato a comprendere riferimenti “altri”. C’è poi la nota del traduttore, strumento al quale per varie ragioni è bene ricorrere con parsimonia: sta alla sensibilità del singolo traduttore decidere quando è il caso, ed è comunque prevista e accettata solo nell’ambito di certi generi testuali. |
Quali sono le strategie da mettere in atto di fronte all’impossibilità di trovare un corrispettivo adeguato a espressioni linguistiche o concetti culturalmente specifici? |
Dipende dal contesto. Mi è capitato di trovare il termine changeling in una biografia di Jim Morrison di cui ho tradotto una parte: se si fosse trattato di un libro sul folklore americano avrei lasciato il termine in inglese aggiungendo la definizione, ma in quel particolare caso ho scelto, prendendomi una piccola libertà, di renderlo con “trovatello”. Non è la stessa cosa, ma ho ritenuto che nel contesto il termine potesse avere un senso sufficientemente simile a quello di changeling nell’originale. |
Ti è mai capitato di incontrare difficoltà insormontabili e quindi di rinunciare alla scelta di un traducente? In questo caso, sei favorevole o contrario alle note a piè di pagina? |
Credo che si possa parlare di intraducibilità insormontabile solo a proposito delle cosiddette culture-bound words, vale a dire le parole (come l’appena citato changeling) che si riferiscono a idee o oggetti specifici di una cultura e in quanto tali intraducibili nelle altre lingue: anche l’italiano ne ha (basti pensare a “pizza”). Se il contesto impone di riprodurle nella loro forma originale e di fornire la definizione, tendo a inserire quest’ultima direttamente nel testo: la nota del traduttore, che spezza l’uniformità grafica della pagina, la riservo a questioni che richiedono un chiarimento più ampio. |
In genere qual è il tuo atteggiamento nei confronti del testo culturalmente dato e quindi, in ultima analisi, del lettore: preferisci mantenere un senso di straniamento oppure scegli di addomesticare il testo? Puoi farci qualche esempio? |
Una delle domande più frequenti che gli allievi mi fanno è: “Quanto bisogna essere fedeli all’originale? Quanto ci si può allontanare?”. Non esiste una formula sempre valida, non parliamo di una scienza esatta: l’unica soluzione è valutare caso per caso, e l’unica indicazione che mi sento di dare, e alla quale cerco di attenermi per quanto possibile, è che bisogna allontanarsi dall’originale solo se è davvero necessario. Naturalmente il concetto di “necessario” è quanto mai relativo: proprio per questo, si può e si deve discutere di ogni singolo caso. |
Parliamo del rapporto con l’autore. Sappiamo che spesso il traduttore può e anzi deve interloquire con l’autore per poter proporre una resa adeguata dei punti più oscuri o ambigui. Puoi raccontarci qualche tua esperienza? |
Ultimamente mi capita quasi sempre di scrivere ai “miei” autori: mi presento e chiedo il permesso di contattarli in caso di dubbi o domande. Sono sempre molto felici di collaborare, perché lo interpretano come un segno di professionalità e scrupolosità. L’esperienza più sorprendente in questo senso riguarda Simon Reynolds, un critico musicale inglese del quale ho tradotto Post-punk 1978-1984, Hip-hop-rock e Retromania: avendogli segnalato alcune imprecisioni nei primi due libri (utili ai fini di eventuali ristampe), mi ha inserito nei ringraziamenti del terzo. Qualche mese fa, a New York, ho avuto il piacere di pranzare insieme a Will Hermes, un altro giornalista musicale, del quale ho tradotto New York 1973-1977. |
Come cambia quindi l’atteggiamento nei confronti del testo se l’autore non è più in vita, ad esempio nel caso della ritraduzione dei classici? |
Nell’impossibilità di comunicare con gli autori scomparsi, in caso di dubbi un paio di volte (traducendo Jack Kerouac e Oscar Wilde) mi è capitato di entrare in contatto con i curatori dei volumi originali. Riguardo al testo, cerco di mantenere un non sempre facile equilibrio tra la fedeltà al tono e al linguaggio “d’epoca” dei classici e la necessità di produrre una versione che sia leggibile al giorno d’oggi. |
Per quanto riguarda invece il rapporto con l’editore, puoi svelarci qualcosa di ciò che avviene dietro le quinte, ossia in redazione? |
Ogni editore fa storia a sé, e molto dipende dalle dimensioni: più l’editore è grande, più può permettersi di diversificare il lavoro, assegnando le varie fasi (correzione bozze, editing, impaginazione…) a persone distinte. Nelle realtà più piccole, invece, è tipico il caso dell’editore in persona che fa “tutto da solo”. In veste di traduttore a confronto con i revisori, mi capita raramente di dover ingoiare rospi o avere a che fare con personaggi irragionevoli: nella stragrande maggioranza dei casi, la proficua collaborazione con revisori eccellenti permette a me e a loro di imparare molto, ed è la strada maestra per arrivare alla migliore versione possibile del testo. |
Sappiamo che sei anche insegnante di traduzione: ci racconti la tua esperienza con Herzog? |
È nata nel 2005 quasi per caso, grazie a un incontro fortuito. Non avevo mai insegnato prima, ma per qualche ragione sentivo che era nelle mie corde, perciò mi sono proposto. Nove anni dopo, non posso che dirmi felice di aver assecondato quell’istinto: il feedback dei miei allievi è regolarmente positivo, e la soddisfazione più grande è aver aiutato molti di loro a cominciare a tradurre (se esordienti assoluti) o incrementare notevolmente il volume delle traduzioni. Alcuni dei titoli che hanno tradotto (per esempio Argo, cotradotto dalla mia collega ed ex allieva Sara Crimi) suscitano tutta la mia invidia! Senza contare, ovviamente, tutti gli spunti che gli allievi mi danno permettendomi di migliorare continuamente e imparare da loro almeno quanto loro imparano da me. |
Come cambia il ruolo del traduttore quando si fa insegnante per trasmettere i ferri del mestiere? |
Insegnare a fare il proprio mestiere è un’esperienza unica, che consiglio a chiunque ne abbia la possibilità, soprattutto se parliamo di un lavoro, come quel del traduttore, nel quale non si “arriva” mai: si può (e si deve) migliorare sempre. Il confronto con gli allievi mi permette di inquadrare il mio lavoro da un punto di vista diverso e, come già detto, di imparare moltissimo: spesso dalla “freschezza” degli esordienti spuntano istintivamente soluzioni più efficaci di quelle trovate dopo lunga riflessione dal traduttore affermato. Ogni volta che le loro idee mi piacciono più delle mie, e non capita di rado, sono felice di riconoscerlo. |
Quello del traduttore non è un mestiere facile: richiede competenze, impegno, abnegazione, rigore e al tempo stesso creatività. Le tariffe sono in genere molto basse, il riconoscimento da parte della collettività e del mondo della cultura in generale è scarso, per non dire inesistente. La situazione oggi è ancora invariata? Vedi qualche spiraglio per il futuro dei traduttori? |
Gli spiragli sono pochi, è vero, ma per esperienza posso dire che ci sono: qualche mese fa una mia ex allieva diventata editor di una piccola casa editrice mi ha chiesto dei nomi per organizzare una prova di traduzione, e ora alcuni altri allievi stanno lavorando per lei. So di insegnanti che scoraggiano gli allievi, perché “diventare traduttori è impossibile”: è un atteggiamento che non capisco, se lo pensassi anch’io non vedrei motivo per continuare a insegnare. Ciò non significa che io voglia in alcun modo sminuire le enormi e innegabili criticità: quello del traduttore, in particolare nel nostro paese, è un lavoro difficile da cominciare, malpagato, poco riconosciuto e sostanzialmente privo di garanzie. Proprio per questo io consiglio di provarci solo a chi è davvero motivato, perché solo la motivazione, unita a un pizzico di fortuna, può regalare al traduttore soddisfazioni straordinarie, tali da convincerlo che ne vale la pena. |
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