fra le tassidermie mistiche di una rossa irlandese
le visioni estatiche della Proserpina delle installazioni
Cosa ci accadrebbe se ci trovassimo di notte all’interno della galleria vuota di un vecchio museo vittoriano di fine Ottocento e all’improvviso, preceduto da una corrente di aria gelida e da un sibilo inquietante, entrasse dalla porta giù in fondo un grande solido evanescente? E se mai ci capitasse di assistere a un fenomeno del genere, non potrebbe voler dire che siamo morti?
Proviamo a immaginare la situazione. È notte, fa molto freddo. Fuori l’inverno incombe e i rami neri degli alberi picchiano sulle vetrate buie del museo, sferzati da un vento sinistro. Noi siamo lì e camminiamo da soli sulle assi di un logoro impiantito cigolante tra austeri busti di marmo stucchi impolverati dal tempo e vecchie teche di ottone arrugginito. Improvvisamente un’entità geometrica sospesa nel vuoto si mette a vibrare sopra di noi. Emette un leggero fruscio ed emana una sorta di energia fluorescente impossibile da definire. Un’energia cosmica, diremmo. Non ci sono dubbi, rimarremmo esterrefatti e come paralizzati. Oppure, magicamente, ci sentiremmo diversi, trasmutati, alla stregua di piccoli animali di campagna come una volpe o un riccio, indifesi e vulnerabili, che impietriti e forse morenti s’interrogano su quanto sta accadendo. È più o meno questo il miracolo visivo che prende forma nelle raffinate installazioni o sculture (così le definisce l’autrice) di una giovane artista irlandese nata a Belfast nel 1980, Claire Morgan.
Al di là di un immediato rapimento dei sensi e dell’ammirazione incantata per opere di estremo rigore formale e notevole qualità artistica, con ogni evidenza ci troviamo qui a contemplare la celebrazione di un mistero. È dunque alle categorie dello spirito che indagano i misteri della Natura che dovremmo rivolgere la nostra attenzione se volessimo dare un’interpretazione convincente di queste eleganti opere d’arte. Sarà infine una sensazione di ambiguità e sostanziale impenetrabilità a rimanerci addosso quando, allorchè un altrettanto misteriosa dissoluzione spaziale avrà avuto luogo, quei volumi magici e primordiali, i solidi evanescenti di Claire Morgan, non ci saranno più.
È difficile non cedere alla tentazione di scorgere in queste opere qualcosa di più, anzi di molto più grande di quello che l’artista stessa, fedele ai dettami dell’understatement di matrice anglosassone tipico delle sue parti (Claire Morgan oggi vive e lavora a Londra), afferma dei suoi lavori e dell’ispirazione artistica che li ingenera. Si ha l’impressione, infatti, che la Morgan non voglia dire troppo delle sue creazioni e che desideri piuttosto rimanere nell’ombra, fascinosamente avvolta nell’oscurità di un enigma che non chiede di essere risolto, in una sorta di alone magico da Regina delle fate o notturna Signora degli animali. Novella personificazione di Artemide (la Diana degli antichi Romani), divinità lunare della caccia usa a nascondersi tra le fronde e nelle sorgenti dei boschi o ancora, e forse più di tutte, nuova fata Morgana, sorella del mitico Re Artù, che nottetempo in Scozia assumeva le sembianze di un corvo nero così da poter volare sopra le scogliere a picco sul mare e sulle torri degli antichi castelli della sua terra. A risvegliare antiche leggende e stimolare suggestioni di questo genere sono, a dispetto delle scarse dichiarazioni dell’artista, il nome stesso dell’autrice e la presenza frequente insieme ad altri animali di un corvide all’interno delle sue installazioni. Ma, naturalmente, potrebbe trattarsi di semplici casualità.
Claire Morgan la fèe ha lunghi capelli rossi, lo sguardo maliardo e sornione di chi sa molte cose e non le rivelerà, un’indiscutibile abilità manuale e, soprattutto, la pazienza certosina di un amanuense medievale. I suoi lavori sono il frutto di meticolosi disegni preparatori e lunghi tempi di realizzazione. Sono opere laboriose di estrema precisione esecutiva e si avvalgono di materiali semplici tratti dalla vita di tutti i giorni. Materiali comuni, poveri, eterogenei. Pigne, fragole, petali di fiori, semi di dente di leone (taraxacum officinalis), blatte, scarafaggi e altri insetti mummificati (quindi trattati chimicamente), frammenti o lacerti di materiali plastici di recupero che la Morgan trasmuta sapientemente in tante piccole tessere musive di effimeri mosaici tridimensionali. E poi fili di nylon a formare complesse ragnatele aeree che sorreggono il tutto, e animali imbalsamati, detti con termine tecnico tassidermie, curati dall’artista stessa. Il risultato, come vediamo nelle immagini, sono opere incantate dall’effetto straniante di collocarsi fuori dal tempo e dallo spazio in una dimensione altra, parallela. E, stilisticamente parlando, di intimo gusto vittoriano. A tratti si direbbero trafugate di nascosto dal laboratorio di un illustre scienziato dell’Ottocento come il naturalista Charles Darwin, per intendersi, o come Konrad Lorenz, padre della moderna etologia scientifica. Le installazioni di Claire Morgan possono essere collocate all’interno di un’ideale zona d’intersezione fra il genere secentesco della vanitas e della natura morta, le forme plastiche di Paul Cèzanne il quale, forse intuendo la possibilità di un’altra dimensione, era arrivato a sintetizzare tutta la realtà visibile in pochi solidi primari, e l’arte animalistica delle steppe asiatiche o arte sciamanica. Senza tralasciare, infine, alcune scene di caccia e di vita nei boschi di certa pittura inglese del XIX secolo e la grazia oscillante dei mobiles di Alexander Calder.
Un profondo senso di malinconia e smarrimento può scaturire da queste installazioni vagamente macabre e spettrali, sempre in bilico tra il mondo dei vivi e l’inaccessibile Averno. La sensazione è che sia accaduto qualcosa di grave e irreversibile. Come la rottura di un fragile ma cruciale equilibrio naturale, ad esempio. O l’infrazione di una legge sacra, o ancora lo sconfinamento illecito in uno spazio magico proibito. Qualcosa che doveva essere scongiurato a tutti i costi, insomma, e che invece è fatalmente avvenuto. Una tragedia che non può essere ripercorsa. Indicativi in questo senso sono i titoli stessi delle opere della Morgan come, per citarne un paio, l’eloquente The Fall (La Caduta) e lo struggente e tenerissimo Please (per favore ma nell’accezione di per pietà). Le inevitabili conseguenze sono estreme e sostanzialmente incomprensibili. Si va dalla metamorfosi animale alla caduta a uno stadio infimo di avvilimento psichico e spirituale. Dall’esperienza mistica del volo estatico notturno alla morte temporanea o definitiva. Dalla visione rivelatrice ma letale all’irruzione imprevista in un altro mondo. Quest’esperienza mistica e ultraterrena che le opere di Claire Morgan sembrano voler raccontare è un vero e proprio viaggio iniziatico, un passaggio dalla luce alle tenebre e dalla vita alla morte (o attraverso la morte a una nuova forma di vita). Anche, possiamo pensare, da un livello spirituale a un altro forse più alto. Insita in questi lavori è la vocazione a collocarsi su una soglia, un varco, un confine che separa e al tempo stesso mette in comunicazione due realtà contigue, partecipi l’una della natura dell’altra, ma ontologicamente differenti. La nostra realtà terrena e quella insondabile degli spiriti.
Eccoci dunque arrivati al termine del nostro ideale viaggio estatico all’interno del vecchio museo vittoriano. Il grande solido evanescente che vibrava sopra di noi è scomparso e adesso non proviamo più l’inquietante sensazione di essere stati, almeno per un attimo, fuori da noi stessi o altro da quello che siamo di solito. L’incantesimo della fata Morgana si è spezzato e il mistero è stato svelato. Ora siamo finalmente liberi d’incamminarci verso l’uscita dell’edificio e tornarcene a casa. Eppure, mentre scendiamo uno degli scaloni laterali del museo, ci viene in mente un’ultima considerazione, leggermente arbitraria e un po’ spericolata. E cioè che il profondo afflato mistico che in qualche modo le opere di Claire Morgan hanno saputo trasmetterci non sia poi così lontano da quello barocco che alla metà del Seicento animò il grande Gian Lorenzo Bernini quando ritrasse in scultura le tre grandi estatiche. La beata Ludovica Albertoni, la santa Teresa d’Avila e, soprattutto, la mitica Proserpina Borghese che fu còlta dal suo raptus siciliano proprio mentre intrecciava ghirlande di fiori.
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