Maria Zambrano – Ladimorascarlatta

 

È più facile parlare di Maria Zambrano utilizzando epigrafi ed estrapolando frasi ad effetto che tentare di sistematizzare il suo pensiero che è complesso, polivalente e delirante. Si potrebbero isolare alcuni elementi che si ritengono fondamentali  alla comprensione della sua filosofia ( l’esilio, la malattia,la relazione con Ortega y Gasset ), ma è la sua stessa vita ad essere imprescindibile dal suo pensiero ed è il suo linguaggio, così denso, puro e follemente poetico a fare di lei una delle pensatrici più originali ed importanti del secolo appena trascorso.

Maria Zambrano, filosofa spagnola,  nasce il 22 aprile del 1904 a Vélez-Malaga, città dell’ Andalusia, prima figlia di Blas Josè Zambrano Garcia de Carabante, pensatore e pedagogo, e di Araceli Alarcon Delgado, pedagoga.

A Vélez- Malaga abita in una casa di via Mendrugo[1] che ha un piccolo cortile all’interno del quale c’è un pozzo e un albero di limoni. Accanto ad essa si trova, da un lato una chiesa, antica sede di un convento carmelitano, fondato da san Giovanni della Croce e dall’altro un bar, dove canta ogni sera, un certo Jean Breva la cui malagueňa diventa ben presto la ninnananna della piccola Maria. Questo “luogo” sarà evocato sempre dalla pensatrice e l’accompagnerà per tutta la vita, durante il  suo lungo  peregrinare, iniziato quasi subito. Nel 1909 , infatti, il padre viene nominato docente di Grammatica presso l’Istituto Generale e Tecnico di Segovia  e lì  si  trasferisce con tutta la famiglia. Questo consente a Maria  di visitare il mausoleo di san Giovanni della Croce e, attraverso gli studi del padre, di apprezzarne la sua poesia mistica. Ma l’influenza della figura paterna non si limiterà solo a questo. Nel 1917 il padre fonda la rivista Castilla  e il periodico Segovia e qualche anno dopo inizia una fraterna amicizia con il poeta e scrittore Antonio Machado che diventerà  un assiduo frequentatore di casa  Zambrano. A questo proposito Maria dirà: “L’amicizia con Machado fu cosa di un istante. Non abbiamo sentito la necessità di parlare per intenderci”. Negli anni dell’adolescenza ha quindi modo di frequentare assiduamente il poeta, col quale avrà in comune il progetto di una nuova logica dove “sensibilità e concetto divergendo si incrociano”.

Nel 1924, completati gli studi di filosofia  a Madrid,  comincia a lavorare come insegnante e ha modo di assistere  ai corsi di Xavier Zubiri, Manuel Garcia Morente e Ortega y Gasset. Quest’ultimo  gli trasmetterà l’interesse per la letteratura e  per la vita, l’apprezzamento del pensiero di Sant’Agostinoe una certa  a-metodicità che, come dice Lorenzo Giusso, “Non si affanna dietro alle relazioni del pensiero e dell’essere, ma di ogni fenomeno  della vita e del costume fa materia di riflessione; procede a caso, come un estroso vagabondo: volteggia libero tra l’infinita varietà di fenomeni”.

Nel 1928 partecipa alle attività della Federazione Universitaria spagnola durante la quale conosce il futuro marito della sorella Araceli, dottor Carlos Dièz Fernàndez il quale comprende immediatamente  che Maria è gravemente affetta da tubercolosi e la obbliga a  prendere una lunga pausa di riposo. Durante questa forzata inattività e in una condizione di isolamento totale, Maria ha modo di  riflettere sulla storia, come continua trasformazione poetica, e di  abbozzare alcuni scritti che, negli anni successivi,  faranno parte di Delirio e destino, Adsum, La molteplicità dei tempi, Verso un sapere dell’anima. Nell’ultimo periodo della sua malattia, Maria riceve la visita di alcuni compagni universitari che sono in aperta opposizione alla dittatura di Primo de Rivera. Probabilmente a causa di queste visite, subisce una perquisizione nella sua casa di Madrid. Gli agenti di polizia incaricati della perquisizione, esaminati i suoi libri, decidono di portar via, come esemplare sospetto, un libro appartenente a suo padre dal titolo La questione sociale. Il libro contiene le encicliche papali che si riferivano a quell’argomento e, come Maria stessa dirà,  fu un vero peccato perché non lo rivide più.[2]

Nel 1931 è nominata professoressa ausiliaria  di Metafisica presso l’Università  Centrale di Madrid, in cui è titolare Zubiri, e nello stesso anno le viene chiesto di presentarsi come candidata  nelle fila del  Partito Socialista. Maria, dapprima indecisa, declina successivamente l’offerta e sceglie di continuare ad occuparsi di filosofia. In una lettera del 28 marzo indirizzata al suo maestro Ortega così si esprime a proposito della scelta filosofica.

“Da quasi un mese sono chiusa in casa, malata, a leggere di filosofia, l’unica cosa che non sento estranea. Io amo la filosofia, perché mi dà una visione luminosa del mondo e perché ha saputo aspettarci e perdonarci tutto”.

Nel 1932 sostituisce Zubiri e diventa titolare di cattedra. Nel 1933 pubblica  “Nostalgia della terra” dove mette a nudo il suo pensiero e parla della perdita della terra, dell’influenza orteghiana e della disumanizzazione dell’arte. Il 1935, invece, è un anno di grandi studi, Proust, Dostoievsky, Husserl, Kant, Platone, Seneca, Plotino, Giovanni della Croce, Santa Teresa, Sant’Agostino, appassionano le sue letture. Nel 1936 sposa lo storico e diplomatico Alfonso Rodriguez Aldave (dal quale si separerà nel 1946) e con lui si trasferisce in Cile. Nel 1937 rientra in Spagna, si stabilisce a Valencia e fonda la rivista Hora de Espaňa che verrà chiusa nel 1938, stesso  anno della morte del padre. Maria, in “A modo di autobiografia”, parlerà del tragico momento della morte del padre come di una rivelazione:“…Fu come una rivelazione della chiarezza nella morte della bellezza, compostezza, armonia del vivere”.

Nel gennaio del 1939, con l’avvento della dittatura franchista, Maria Zambrano inizia un lungo esilio, durato ben quarantacinque anni, in compagnia della madre, della sorella, di suo marito e dell’immancabile amico Machado. Ed è proprio lui ad obbligarla a scendere dalla macchina mentre varca i Pirenei  insieme a molti altri intellettuali e a farle percorrere un tratto a piedi al suo braccio. “Quando uscii dalla Spagna mi proibii la nostalgia. L’esilio non lo scelsi, lo accettai. Non mi piace la nostalgia, a meno che non sia nostalgia del futuro.”

Alcuni anni dopo, in occasione di una lezione tenuta all’Avana sul suo maestro Ortega Y Gasset, ricordando questo momento si lascerà andare ai ricordi: “Quando giunse il momento di abbandonare la casa in cui vissi  nell’ultimo periodo trascorso in Spagna, ormai sulla via della frontiera, dovetti scegliere pochi oggetti, più simbolici che utili perché mi accompagnassero nell’esilio. Ebbene, c’erano accuratamente ordinati in due scatole facili a trasportare , tutti i miei appunti (Ortega, don Javier Zubiri). Li lasciai lì, ora so perché.[…] il loro contenuto è andato sorgendo dal fondo della mia mente secondo che il mio lavoro o i miei interessi lo richiamavano, nella misura così grata a Ortega: la misura della necessità”.[3]

In Messico, nell’autunno del 1939, scrive “Filosofia e poesia”. Si ferma, successivamente, per alcuni anni all’Avana, come docente dell’università. Nel 1944 insegna all’università di Puerto Rico. Pubblica alcuni tra i suoi scritti  più importanti: Il pensiero vivo di Seneca, L’agonia dell’Europa. Dal 1946 al 1949 vive a Parigi e fa amicizia con Picasso, Sartre, Simone de Beauvoir, Camus. Parigi è teatro di eventi drammatici: muore la madre, il marito di Araceli viene imprigionato ed ucciso e la stessa Araceli subisce torture da parte dei nazisti. Si trasferisce nuovamente in Messico e poi ancora all’Avana. Nel 1953 pubblica “Verso un sapere dell’anima” e si stabilisce a Roma dove entra in contatto con alcuni  intellettuali italiani (Cristina Campo, Elemire Zolla). Sono di questi anni anche: L’uomo e il divino, Persona e democrazia, La Spagna di Galdos.

La lunga stagione romana è ricca di aneddoti. Frequentatrice della Chiesa di San Giovanni Decollato, un giorno avvicina i frati che sono intenti a  guardare il recinto mortuario. Maria chiede se è possibile offrire una messa per alcuni morti anonimi dell’ossario comune. “Vorrei offrire una messa per Giordano Bruno”, dice Maria. E i frati scandalizzati: “Ma si tratta di una persona morta recalcitrante nei confronti della chiesa”.“Ecco, precisamente per questo”, insiste Maria. E la messa è presto detta.

Per non parlare, poi, del motivo per cui viene allontanata  dall’Italia: un vicino fascista si lamenta dei troppi gatti che Maria ospita nel suo appartamento! Dall’Italia si trasferisce a La Pièce, presso il lago di Ginevra e  pubblica: Spagna, sogno e verità, Il sogno creatore, La tomba di Antigone.

A partire dal 1966 il critico J.L. Aranguren la impone all’attenzione spagnola, tanto che cinque anni dopo viene pubblicato il primo volume delle sue opere in seguito al quale riceve numerosi riconoscimenti e prestigiosi premi, tra cui il premio Principe di Asturia.

Evento determinante nella vita di Maria è la morte dell’amatissima sorella Aracoeli, avvenuta nel 1972. Lei stessa racconta che non riusciva a separarsene e che la sera prima Araceli le aveva intimato: “Lasciami andare, Maria, che mi stai attorcigliata addosso come una serpe”. Dopo la morte di Araceli la sua salute subisce un notevole peggioramento, ma nonostante la perdita della vista, continua a lavorare e a scambiare epistole con diversi amici.

Nel 1977 pubblica Chiari del bosco. Finalmente nel 1984 ritorna in Spagna, si stabilisce a Madrid e l’anno dopo viene nominata “figlia prediletta dell’Andalusia”. Nel 1988, prima donna nella storia,  riceve il prestigioso premio Cervantes.

Maria Zambrano muore il 6 febbraio  del 1991, affetta da una infezione respiratoria. Giace a Velèz-Malaga tra un limone e un arancio. Nell’iscrizione della lapide, secondo i suoi desideri, si legge una frase tratta dal Cantico dei Cantici: “Surgi amica mea et veni”.

Il luogo-logos in Filosofia e poesia

Uno degli scritti più importanti di Maria Zambrano è Filosofia e poesia, operain cuil’autrice descrive il conflitto tra il metodo di indagine del filosofo e il contatto del poeta con la realtà,  auspicando che questi due approcci, tra loro così diversi, possano trovare un punto di contatto duraturo e stabile. Scriveva Galeno che il buon medico è sempre filosofo. E aveva ragione. Entrambi, medico e filosofo, condividono la stessa catastale esigenza di ordine, lo stesso mortifero desiderio di sistematizzare il reale. I percorsi concettuali, del medico e del filosofo, sono inquietanti e paralleli: quello della scienza medica nasce dallo studio dei cadaveri e trova il proprio oggetto nella raggelata fissità dei corpi e, nulla intendendo del divenire dei corpi viventi, tende a farsi prescrittiva; quello della scienza filosofica si struttura in episteme per negare la radice umana dell’esperienza e organizza un sapere razionale e cumulativo di cui si fanno zelanti custodi le accademie di ogni tempo.

Maria Zambrano si è opposta a questo mortifero desiderio di ridurre in episteme il reale e, attraverso una scrittura che non rinuncia al rigore dell’analisi e alla chiarezza, cerca la bellezza, la metafora, la ricreazione poetica delle situazioni vitali. Non di rado capita, leggendo i suoi libri, di imbattersi in un linguaggio poetico che sembra fiorire dal nulla. Per fare un esempio, estrapolando alcune frasi tratte da “Filosofia e poesia” e aggregandole fra di loro, possiamo leggere qualcosa che somiglia molto alla poesia: potremmo intitolarla ‘Il poeta’:

Chi consolerà il poeta

dell’istante che trascorre?

Chi lo persuaderà

ad accettare la morte della rosa,

della fragile bellezza della sera,

del profumo dei capelli dell’amata,

del giorno che passa,

del cinereo trasformarsi degli occhi amati,

del dileguarsi, nelle brume del tempo

del fantasma amato?

Niente e nessuno.

Perso nella luce,

errante nella bellezza,

povero per eccesso,

folle per troppa ragione,

peccatore in stato di grazia.

Senza aspettare che lo cerchino,

egli va incontro a tutti,

a profondere l’incanto della sua musica,

squarciare con la luce della parola

le ubbie del tedio,

rendere leggera la pesantezza delle ore.

I termini che caratterizzano il linguaggio zambraniano tracciano un progressivo allontanamento dagli ambiti della riflessione occidentale che sono strutturati in un sapere duale.

Maria Zambrano – dice Annarosa Buttarelli[4]– come accade agli  sciamani di certi popoli da noi considerati primitivi, crede che la mediazione del linguaggio operi positivamente solo quando si collega a una qualità quasi magica del sentire e che la scrittura sia il giusto strumento che consente di pensare questo sentire. La scrittura dunque non consiste tanto nell’abilità di dare forma all’informe [ …] quanto nella possibilità di de-lirare (nel senso etimologico di uscire fuori dal solco)”.Se, infatti, si perde il contatto con la realtà non delira solo la ragione ma anche la vita. Vita e pensiero sono un’unica realtà dell’uomo il quale deve trovare il coraggio di farsi carico della sua interezza e di  rifiutare l’egemonia della mente per slanciarsi verso un nuovo modo di conoscenza più aderente all’interezza dell’esperire umano.

Il “velo dell’oblio”, di cui parla Maria Zambrano in Filosofia e poesia, deve essere squarciato  per far sì che l’uomo si abbandoni dentro gli abissi della verità, andandole semplicemente incontro. Il contenuto caotico, indeterminato e sfuggente della vita può trovare ordine attraverso la parola poetica, mediatrice tra la luce e l’oscurità, può insinuarsi laddove risuona il mistero dell’origine, di cui ha nostalgia, e ritrovare finalmente il luogo perduto “penetrandolo fino a quel vuoto, dove si forma la parola. Quella cavità dove già risuona prima di essere pronunciata. Magica grotta dove la parola riverbera […], dove parole cieche non trovano l’uscita. […] E un giorno non dirà più nulla. Rimarrà quasi dissolto, con le mani unite e socchiuse, come se nel loro cavo tenesse la parola che ha serbata e che offre senza leggerla. Come una sposa d’integra innocenza alla vigilia delle nozze. E dalle nozze compiute si sa che quel che s’aspetta è la risurrezione[5]”. Probabilmente un luogoLogos pieno di grazia e di carità, un anello di congiunzione tra il desiderio e l’umana speranza. [LMS]٭

٭[Ladimorascarlatta nasce, come scrittrice, nel 2004, anno in cui pubblica il suo primo libro, Sulle palme delle mie mani poesie ed altro, per l’editore Bonanno. Alla raccolta di poesie segue nel 2006, Il fruscio della penna, opera autobiografica. Nel 2009 pubblica Ritorno a Waki, fiaba galattica destinata ai lettori più piccini. A distanza di due anni pubblica Come larva del bombice del gelso, una raccolta di poesie dallo stile più maturo, che include tutte le poesie premiate nei vari concorsi, oltre a composizioni in endecasillabi, filastrocche, haiku e timidi esperimenti di tmesi.]



1)  M. Bernárdez, Una cronologia

2)  Zambrano Maria, Delirio e destino, a cura di Prezzo R., tr. di Marcelli , 2000,

3) M. Zambrano, Spagna -pensiero, poesia e una città, 1964, Vallecchi Editore

4) A. Buttarelli, Una filosofa innamorata. Maria Zambrano e i suoi insegnamenti, Mondadori

5) M. Zambrano, Spagna. Pensiero, poesia e una città, tr. di Tentori  Montalto

 

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