L’umanità rifratta di Giorgio Ortona

Giorgio Ortona nasce nel 1960 in Libia, a Tripoli. Dopo essersi laureato in architettura a Roma, città nella quale vive e lavora, diventa un pittore figurativo e va a mettere a punto tecnica e stile in Spagna, presso l’Università di Cadice, sotto l’autorevole direzione di Antonio Lopez Garcia.

Ortona è prima di tutto un pittore della luce. O meglio, dipinge l’eccesso di luce e i suoi effetti sul paesaggio e gli individui che lo popolano. Non appena capiti di trovarsi di fronte a una sua opera, la prima impressione che se ne ricava è appunto quella di un biancore abbagliante, di un eccesso di luminosità quale conseguenza, si direbbe, di una sovraesposizione ai raggi solari. Da questo candore accecante, come se fuoriuscissero dal cuore incandescente di una fiamma ossidrica, o se fossero le ultime immagini incamerate dalla retina un attimo prima diperdere i sensi per una forte insolazione, poco alla volta emergono in superficie le figure.

Cantiere al Tiburtino, 2012, olio su tavola, 30×40 cm

Binari morti e segmenti di rotaie, sopraelevate e incroci stradali, palazzi di quartieri-dormitorio in costruzione, interni spogli di appartamenti, corpi seminudi di uomini e donne che ci interrogano attoniti. Chi siamo? Perché siamo lì? Cosa siamo venuti a fare? Cosa

vogliamo da loro? Siamo lì per disturbare? Ecco alcune delle domande che queste presenze spaesate e disarmate, a tratti ai limiti dell’evanescenza, sembrano rivolgerci. Subito ci rendiamo conto di essere entrati in contatto con un ambiente marcatamente popolare, un luogo in cui vive il cosiddetto proletariato urbano (per usare una terminologia sociologica di qualche decennio fa e forse oggi caduta in disuso ma che, ciononostante, rende ancora con chiarezza l’idea della categoria sociale alla quale facciamo riferimento in queste righe). Ci accorgiamo, insomma, di essere arrivati in periferia.

Ma periferia è un termine generico, intrinsecamente ambiguo e usato spesso in modo improprio. Qui si tratta piuttosto di nuove isole suburbane, avulse da tutto ciò che sta loro intorno. Non-luoghi autoreferenziali che in qualche modo, nonostante le difficoltà del quotidiano e l’endemica iniquità sociale, sono riusciti a trovare in se stessi il proprio centro, il motivo per andare avanti e l’intima ragione di esistere. Come villaggi autonomi ai margini delle città, le nuove isole stilano il loro sistema di valori (invisibile ma riconosciuto), i loro codici e la carta dei diritti, pregano i loro santi e tifano i loro eroi. Restano fedeli a liturgie e rituali di vita che la comunità nel suo insieme ha impiegato tempo e fatica a definire, e che adesso tutela e difende ad oltranza. Isola è quindi la parola giusta. E isolamento la parola-chiave per comprendere appieno le opere di Giorgio Ortona.
Nuove isole di ferro e cemento appena nate o che stanno per nascere da un giorno all’altro. Sebbene siano ancora infestate da gru, camion e cantieri, già presentano tutti i segni caratteristici della loro categoria. Sono remote, sperdute e sempre sul punto di svanire, vorremmo dire, nonostante sia poco tempo che sono venute su. Non a caso Ortona le approccia partendo da lontano, dalla campagna incolta che le circonda e le separa dalla città vera e propria. Poi, come in una sequenza cinematografica neorealista, si avvicina lentamente. E in silenzio, discreto e forse un po’ circospetto, penetra infine al loro interno per conoscerne i segreti. Proprio come farebbe un gatto randagio che inceda cauto fra sacchi e calcinacci alla ricerca di una cucina e di qualcosa da mettere sotto i denti.

Le_palazzine_di_Roma,_2011,_olio_su_tela_incollata_su_tavola,_36_x_47,8_cm
Le palazzine di Roma, 2011, olio su tela incollata su tavola, 36 x 47,8 cm

Ed ecco che senza accorgercene abbiamo appena tracciato i lineamenti dell’artista. Notturno e silenzioso come un felino, immobile e concentrato, ci osserva con attenzione e ci studia dall’interno austero del suo ambiente di lavoro. È bianco sul fondo nero delle imposte chiuse. Vuole tenere fuori la notte nera di periferia, o più semplicemente è giorno e cerca riparo dal sole cocente di mezza estate? Ci fa pensare a un donchisciottesco hidalgo contemporaneo, o a un’insolita miscela fra un uomo comune dedito al suo lavoro e un misterioso Rockabilly metropolitano dalla vita elettrica e imprevedibile. In un’altra immagine, infatti, lo vediamo nero in controluce su fondo bianco. Una doppia anima, dunque. Pulp e ordinaria, diurna e notturna, bianca e nera.
La stanza in cui lo troviamo seduto è la stessa nella quale si muoveranno i soggetti dei suoi dipinti. Una stanza come centro di lavoro e centro del mondo. Una stanza-studio di registrazione e una stanza-laboratorio. Giorgio Ortona e i suoi personaggi si trovano dunque in una straniante condizione di sovrapposizione fra Arte e Realtà. Abitano lo stesso spazio, lo stesso ambiente di vita, come accade nelle opere del pittore olandese seicentesco Jan Vermeer. Una stanza vuota e disadorna, che tuttavia preserva la funzione fondamentale di separare l’internodall’esterno. Un esterno dal quale sia l’autore che i suoi personaggi sembrano volersi proteggere. Un fuori percepito come estraneo e inospitale. Precario, difficile e potenzialmente violento, nel quale il pericolo più comune e sempre in agguato è quello di mancare a se stessi.

In effetti queste figure sembrano essere sempre sul punto di smarrirsi, di perdere definitivamente la propria identità e il proprio ruolo all’interno della società. Immerse in un liquido amniotico che le avviluppa e le paralizza, imprigionate all’interno di un prisma di cristallo fatto di afa e calore, esse vengono colpite dalla luce inclemente di un rovente sole romano di metà luglio e, in una simbolica dissociazione identitaria, si rifrangono otticamente. Diventano, cioè, il bersaglio umano di un fenomeno fisico che prende il nome di rifrazione ottica e dispersione luminosa. Alternative sceniche a questo interno d’appartamento sono le sue immediate vicinanze. Un locale di servizio, un muro del cortile sottostante al quale gli operai hanno appoggiato i sacchi della calce e gli attrezzi da lavoro, un balcone con la sua ringhiera, un terrazzo affacciato sul nulla.
Ma di questo nulla fatto di capannoni abbandonati, campi assolati e sterpaglie bruciate sappiamo già qualcosa. In realtà lo conosciamo bene, ci è familiare. Senza troppi sforzi di memoria le note che ci sembra di sentir uscire dalla finestra aperta di uno di questi palazzi sono quelle di Adriano Celentano che nel 1966 raccontava la storia del Ragazzo della Via Gluck. O di Eros Ramazzotti che esattamente vent’anni dopo, nel 1986, cantava i suoi Nuovi Eroi abitanti ai margini delle periferie, dove anche i tram terminavano la loro corsa. Ora che siamo alle soglie del 2016 e altri trent’anni sono passati, Giorgio Ortona ci parla attraverso la pittura di un fenomeno sociale che credevamo di esserci lasciato alle spalle e che invece vediamo nuovamente ripetersi sotto i nostri occhi. E lo fa per mezzo di immagini ruvide e corrosive, caratterizzate da accordi cromatici volutamente acidi e stridenti. È questo lo stile più adatto alla rappresentazione dell’’inurbamento di nuove classi sociali all’interno del tessuto cittadino preesistente, e della loro lotta quotidiana per la sopravvivenza e l’integrazione.

Corpo, 2012, olio su tela incollata su tavola, 40×32 cm

Ascrivere i lavori di questo autore alla corrente artistica genericamente denominata Realismo, non è operazione ovvia come possa sembrare a un primo sguardo. Infatti il cosiddetto Realismo è per sua natura una corrente ambigua e sfuggente, oltremodo estesa sia da un punto di vista geografico che temporale, e dunque difficile da definire. Usare questo termine può non voler dire niente, tanto ineffabile è l’essenza stessa della sua natura. Non di rado sfocia naturalmente in una delle sue varie e ormai storicizzate declinazioni di genere, quali: Naturalismo, Verismo e Accademismo, Surrealismo e Metafisica, Realismo Magico e Realismo Esistenziale, Iperrealismo e Fotorealismo, Neorealismo e Realismo Socialista. Forse quest’ultima è la variante più accettabile e più vicina allo stile dell’Ortona per il quale, in verità, verrebbe voglia di ricorrere a definizioni sperimentali e trasversali come ad esempio, per citarne alcune che potrebbero fare al caso nostro: Realismo Onirico o Realismo Informale, Realismo Sociale o Realismo Pulp.
Lo stile di Giorgio Ortona si distingue per un’evidente componente aspra, elettrica e graffiante, in certi frammenti ai limiti con la pittura astratta e informale. I colori sono accesi, a volte acidi, il bianco incandescente e assoluto come la luce meridiana dell’estate mediterranea. Il nero, in alcuni casi prepotentemente fatto avanzare in primo piano, è il nero senza fondo del nulla e della disperazione che non conosce conforto. Una pittura, dunque, costruita sui contrasti e fatta di gesti carichi di energia, aggressivi, all’occasione persino impietosi e arrabbiati.
Infine, Ortona non indulge mai alle lusinghe del Bello come categoria estetica edificante e selettiva, né a istanze puramente pittoriche dell’Arte per l’Arte. Non ambisce a mostrare niente di più di quello che mostra perché sa, per esperienza e per istinto, che la Verità della condizione umana non chiede mai di essere filtrata. Né la Realtà ha bisogno di essere alterata o abbellita per rivelare la sua ragione d’essere più autentica e profonda, o per graffiare come farebbe un gatto randagio che si allontani guardingo sui ponteggi di un cantiere romano.

Simone Scaloni

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