L’iperromanticismo di Andrea Chiesi – Simone Scaloni

Ucronie – olio su lino, cm50x70

Andrea Chiesi è un pittore emiliano, nato a Modena il 6 novembre 1966, che vive e lavora nella sua terra. Autodidatta, si forma all’inizio degli anni Ottanta negli ambienti Punk e Underground dei primi Centri Sociali italiani e al contatto di gruppi musicali e artisti affermati come Osvaldo Arioldi e le Officine Schwartz, Emidio Clementi e i Massimo Volume, Giovanni Lindo Ferretti e Massimo Zamboni e i CCCP Fedeli alla linea, il Consorzio Suonatori Indipendenti. La Controcultura, la contestazione all’establishment, la tendenza romantica all’anarchia e alla radicalità, rappresentano il punto di partenza per l’ispirazione artistica dell’autore. L’Iperrealismo americano degli anni Sessanta, la grafica d’animazione giapponese e la fotografia industriale ne costituiscono invece i diretti riferimenti  iconografici e stilistici.

A un primo sguardo ai dipinti di Andrea Chiesi è difficile non rilevare subito un senso di decadenza, straniamento, inquietudine. Sono paesaggi metropolitani contemporanei nei quali è del tutto scomparsa ogni forma di vita. Non ci sono esseri umani, non ci sono animali. Anche le giostre, i camion e le automobili sembra che si muovano da soli, senza conducenti a guidarli. Gli alberi sono un profilo nero e frastagliato all’orizzonte, sotto cieli lirici e tumultuosi da Giudizio Universale. Sono scenari urbani che hanno attraversato l’Apocalisse e ne sono usciti desertificati, allucinati, seppure apparentemente intatti. La luce che li pervade è livida e abbagliante, ultraterrena. È una luce metafisica.

Eppure questi paesaggi non sono mai negativi. Il nichilismo che suggeriscono è anzi un nichilismo attivo. L’atmosfera che evocano è sì da aurora boreale o da Apocalisse di Giovanni, da fine della storia del genere umano, ma è anche enigmaticamente positiva. Si avvertono sempre una tensione costante, un senso di attesa, quasi di minaccia incombente, ma anche un forte calore umano, addirittura un sentimento della Natura, un’energia empatica che invita alla vicinanza e alla condivisione. Si tratta di una sensazione sottile, all’apparenza contraddittoria e difficile da descrivere, ma presente e caratteristica dell’opera di Andrea Chiesi.

La produzione artistica del pittore emiliano si articola tutta intorno a due temi principali: la Memoria e il Lavoro. È l’artista stesso a dichiarare di “sentire il dovere di ricordare (nello specifico gli operai delle Fonderie Riunite di Modena uccisi dalla polizia durante uno sciopero nel gennaio del 1950)”, e che la sua opera “ha a che fare con il Tempo”. Il pittore, dunque, sente il bisogno di ritrarre quei luoghi in cui un tempo si lavorava, si produceva e si viveva. Quegli stessi luoghi in cui oggi non si lavora, non si produce e non si vive più. Da qui, probabilmente, quella sensazione di svuotamento e di sospensione dei suoi dipinti.

Kryptoi (2007), olio su lino, cm70x100

Sono temi, questi della memoria e della storia del nostro Paese, o della nostalgia di un tempo passato e di un lavoro che non sarà mai più quello di prima, centrali nell’espressione artistica di Chiesi, il quale nel suo procedere è sempre “mosso da un sentimento di irrequietezza, decadente, romantic-noir”. Ed è proprio questo sentimento romantico e nero che si percepisce nelle sue opere e che fa pensare a certe figure dei primi dell’Ottocento di Caspar David Friedrich, risucchiate e sconfitte dall’immensità e dalla sconvolgente superiorità della Natura. Anche Friedrich infatti, figura dominante del Romanticismo in pittura, nei suoi quadri esprimeva stati d’animo legati alla desolazione e all’inquietudine. Ma mentre in Friedrich era Gea, la Natura, con la sua devastantepotenza tellurica a vincere sull’Uomo e le sue attività, in Chiesi è Chronos, il Tempo, il Moloch implacabile e saturnino, ad aver divorato i suoi figli e con loro ciò che avevano prodotto.

Si tratta in sostanza del passaggio, avvenuto e irreversibile, dalla Civiltà della Produzione (quella dei nostri padri) alla Civiltà dei Consumi (la nostra). Ciò che è rimasto di questa transizione sono i relitti, i reperti archeologici di fabbriche, strutture industriali, magazzini, stanze d’ufficio, parcheggi, scali ferroviari e portuali. Ma anche abitazioni private, luna-park e sale-giochi, biblioteche e ambienti ricreativi, scale e corridoi, androni e sale d’attesa, vetrate e spogliatoi, servizi igienici per impiegati e operai. Una sorta di mondo ai confini della realtà, deserto e inospitale, un paesaggio postindustriale e postmoderno, sul quale è calato il silenzio dell’obsolescenza e dell’oblio, ma carico di energia, illuminato da un’intensa luce spirituale, e ancora capace di generare emozioni.

Ucronie (2013), olio su lino, cm50x70

È questa  la magia dei luoghi ritratti da Andrea Chiesi, immobili e sospesi, ma inspiegabilmente attraenti e magnetici. Pare che l’elemento della distorsione spazio-temporale, dello straniamento, dello slittamento in un’altra dimensione, sia caratteristica costitutiva della grande tradizione italiana. Penso alla Metafisica di Giorgio De Chirico e Carlo Carrà, ai paesaggi di Mario Sironi e agli interni di Felice Casorati, alle nature morte di Giorgio Morandi, ma anche a certe sequenze cinematografiche indimenticabili di Federico Fellini e Michelangelo Antonioni, alle pagine di Ennio Flaiano (tanto per citarne alcuni). Lungi dal voler fare paragoni o anche solo suggerire accostamenti, sempre rischiosi e spesso inopportuni, sembra che l’opera e la poetica di Andrea Chiesi si inseriscano con dignità e coerenza nel solco di questa gloriosa tradizione nazionale.

La tecnica operativa di Chiesi per la realizzazione dei suoi dipinti si avvale sempre del supporto fotografico dal quale non può prescindere. L’artista prima fotografa i suoi soggetti, i paesaggi e gli interni, e poi li dipinge. Nella fase pittorica vera e propria Chiesi fa uso di colori ad olio su tele di lino, ma anche di inchiostro nero-violaceo su carta, probabilmente per la stesura preliminare di bozzetti e disegni preparatorii. I colori utilizzati sono tre: il bianco, il nero e il grigio nelle sue diverse gradazioni. Occasionalmente compaiono piccoli elementi rossi. Dunque una tavolozza ridotta al minimo a conferma del carattere essenzialmente grafico, incisivo e romantic-noir dello stile del pittore. I tempi di realizzazione sono lunghi e sapienti, dal momento che l’artista trascorre la maggior parte delle sue giornate chiuso in laboratorio a dipingere, con lentezza e pazienza artigianale, come si faceva una volta.

Infine, è interessante rilevare come Andrea Chiesi, nella scelta dei titoli per le sue ormai numerose mostre personali, faccia spesso ricorso all’uso del vocabolario greco dell’Antichità Classica. E così ci imbattiamo in termini come Siderale (di ferro), Moloch (Chronos, Saturno), Thule (l’Altrove identificato nella mitica isola dell’Atlantico del Nord, terra di ghiaccio e fuoco sulla quale non tramontava mai il Sole, abitata dal popolo degli Iperborei e organizzata in una società ideale pressoché perfetta, da sempre considerata il confine estremo della Terra o addirittura al di là della Terra conosciuta), Kryptoi (appellativo che nell’antica Sparta veniva attribuito ai ragazzi che si rifiutavano di sottostare a qualunque gerarchia o forma di potere costituito, che vivevano da antagonisti nascosti ai margini della città, avevano il cranio rasato e vestivano sempre di nero), Metamorphosis, Chaos, e il più recente Ucronie (allostorie, fantastorie, storie di un Altrove).

Ucronie 36 (2014), olio su lino, cm50x70

Goethe,appena arrivato in Italia, scrisse che “dove c’è molta luce l’ombra è più nera”. Cèline, dal canto suo, che “tutto ciò che c’è di interessante accade nell’ombra. Non si sa nulla della vera storia degli uomini”. Andrea Chiesi, forse per proporci una chiave di lettura della sua opera, scrive: “Uffici, qualche scrivania, telefoni e computer fuori uso, faldoni abbandonati, calendari impolverati, sedie, ricordi evanescenti, echi delle vite trascorse fra queste mura. Lavoro statale, posto fisso, sicuro, pensione, e poi figli che invece hanno dovuto affrontare il tempo del precariato diffuso. Muri scrostati, bagni inservibili. Posti dimenticati, sospesi, inutili, morti, in attesa di scomparire del tutto…e poi giù nei sotterranei, buio pesto, l’occhio si è abituato e un po’ alla volta ha iniziato a vedere. Avrebbe potuto esserci di tutto qui sotto, una catacomba, un mitreo, cadaveri o refurtiva clandestina. Invece non c’era nulla. Non ero deluso. C’era quello che conta, c’era e non si vedeva”.

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