Uncanny è un aggettivo inglese che solitamente si usa per connotare una situazione consueta e familiare che inaspettatamente si trasforma in qualcosa d’inquietante e preoccupante. Mette in luce quella strana dicotomia che si può sempre instaurare fra le rassicuranti certezze della vita di tutti i giorni e l’improvviso aprirsi dell’abisso dell’assurdo. Quando la realtà si trasforma in visione allucinata e le abituali apparenze del mondo si confondono e dissolvono per lasciar emergere un livello sottostante, profondo e spesso indecifrabile, la cui esistenza silenziosa eppure attiva come un fiume sotterraneo, nessuno sospetta mai. Ma che, una volta evocata e riportata in superficie, distrugge al suo passaggio i teatri della vita e le maschere della quotidianità. Spazza via come una colata lavica i non luoghi, le non situazioni e le non identità, tuttavia necessari alla sopravvivenza. I tempi morti, le sale d’attesa di cui sono costellate le esistenze di ognuno di noi e nelle quali tutti indugiamo, anche solo per riprendere fiato, spesso fingendo di essere chi non siamo e fantasticando, elaborando congetture, ipotesi improbabili, sulle identità e le vite degli altri.
Quando riemerge, l’uncanny non risparmia nessuno. Impietosamente massacra le apparenze e, sradicandole, strappa via alle viscere della terra le verità nascoste, quali che siano. L’uncanny porta con sé il disagio e l’inquietudine della soffitta chiusa a chiave come luogo dell’oblio, la cantina il cui accesso è prudentemente interdetto ai più piccoli, l’armadio pieno di vecchi vestiti nelle cui tasche potrebbe esser rimasta la traccia di qualcosa che non vogliamo ricordare. L’uncanny sono le sensazioni sgradevoli delle cose rimaste a metà, sospese, irrisolte per sempre. Le domande che non hanno trovato risposta, le parole fatali mai pronunciate, le situazioni che hanno preso la piega sbagliata e sono rimaste lì a decantare fino allo spegnimento finale, le occasioni mancate e ormai lontane anche al rimpianto, le identità nascoste e le emozioni soffocate, i desideri estinti, i fraintendimenti e le disillusioni, le speranze tradite. La vita della maggior parte delle persone, andata in un modo piuttosto che in un altro. Tutto questo è l’uncanny.
Che cosa è successo alle vecchie fotografie conservate in una scatola, per caso rinvenuta sul banco di un mercatino dell’usato? A chi appartenevano? E chi sono le persone ritratte? A prima vista si direbbe che la cellulosa di cui sono fatte abbia reagito all’umidità dell’aria e prodotto strane muffe, colorate e stilizzate efflorescenze come figure geometriche di un caleidoscopio. A un secondo sguardo, incuriosito e quindi più attento, ci accorgiamo invece, e non senza una lieve sensazione di sgomento, che qualcuno le ha meticolosamente decorate all’uncinetto. Sebbene affascinati dagli originali e bilanciatissimi accordi cromatici, la bellezza della composizione e la perizia esecutiva che le ha prodotte, non è un effetto piacevole quello che ne ricaviamo. Ma piuttosto un senso di fastidio e strano raccapriccio. Queste immagini sono opera di Julie Cockburn.
Julie Cockburn è un’artista inglese nata in Gran Bretagna nel 1966. Vive e lavora a Londra e le opere che realizza sono le cosiddette embroidered images, o anche stitching photographs. Vale a dire, immagini ricamate o fotografie cucite. Nella maggior parte dei casi si tratta di ritratti di attori di Hollywood, o più in generale di personaggi legati all’ambiente del cinema, principalmente degli anni Quaranta e Cinquanta, sui quali l’artista interviene per sovrapposizione adesiva di elaborati ricami all’uncinetto. Oltre ai ritratti degli attori la Cockburn lavora su immagini tratte dagli annali dei licei americani, gli highschool yearbooks, e su incantati paesaggi di provincia, rarefatte vedute da cartolina. La banale raffinatezza estetica di queste immagini, non di rado rasente l’oleografica perfezione formale, è espressamente ricercata dall’autrice. Infatti, soltanto su una base iconica fortemente idealizzata, e per certi versi vicina al pittoresco e all’iperrealistico, è possibile per l’artista esprimere al meglio il contenuto dissacrante della sua poetica. Ciò avviene con paziente meticolosità e delicatezza tutte femminili, ma sempre improntate al più acceso contrasto. Più l’immagine di partenza è rassicurante e convenzionale, sia essa il volto seducente di un divo hollywoodiano o la casa di legno immersa nel rosso autunnale degli aceri, più l’intervento su di essa condotto dalla Cockburn sarà sconvolgente e radicale. Anche per questo motivo le opere della Cockburn, già presenti all’interno di collezioni pubbliche e private, sono sparse in tutto il mondo.
Nei ritratti realizzati al chiuso di uno studio fotografico, caratteristici dell’epoca d’oro del cinema americano e più in generale degli anni Cinquanta e Sessanta, Julie Cockburn ravvisa sempre una vacua e innaturale compostezza del soggetto, sitter in inglese, e un senso di raggelata immobilità che apre il campo a dubbi e interrogativi. È proprio questa sensazione di forzata innaturalezza a intrigare l’autrice e a sollecitare la sua arte. La Cockburn, infatti, dichiara di agire sempre per istinto. È l’istinto che la guida nella scelta delle immagini da alterare, e le emozioni sono il necessario combustibile alla sua macchina artistica. La materia prima è dunque di stampo emozionale. La natura dell’opera, invece, è per un verso nostalgica e romantica, per l’altro surreale e tenebrosa. L’obiettivo è sempre quello di trasformare un soggetto familiare in una presenza assurda e incomprensibile, mantenendone le caratteristiche formali ma alterandone irreversibilmente il significato più profondo e l’impatto visivo. L’interesse dell’artista è invariabilmente rivolto all’indagine della relazione artificiosa, incoerente e non empatica, che s’instaura fra il sitter-soggetto e il fotografo che lo ritrae. È in questo gap di rapporto mancato, in qualche modo fasullo o contraffatto ad arte, che l’artista s’inserisce, per scardinarlo e restituirlo alla spontaneità del vero e del reale. Nelle sue opere Julie Cockburn estrae l’aspetto inconsapevole e spesso represso dei soggetti selezionati ai quali, così facendo, cerca di infondere un’altra vita e offrire una seconda chance.
La più intima natura di questi ritratti scarabocchiati, o elegantemente sfregiati, affonda le radici nella matrice enigmatica, paradossale, sempre sottilmente straniante del Surrealismo europeo, movimento che con tanta forza ha affascinato e contaminato tutto il secolo scorso. Oltre a stupire e disorientare, la Cockburn tenta l’indagine dell’aspetto emotivo e più riposto delle relazioni umane e soprattutto delle interazioni fra sconosciuti. È ciò che avviene tra il fotografo e il suo soggetto, il pittore e la modella, il regista e l’attore. Ma anche fra estranei che s’incontrano per la prima volta in una sala d’attesa e si studiano in silenzio alla ricerca di un particolare, un indizio, un gesto che ne tradisca i segreti. S’intitola appunto Waiting Room una serie d’immagini che la Cockburn ha realizzato nel 2014 e nella quale esprime apertamente il suo giudizio sui volti che ha scelto di abbellire o deturpare, secondo la prospettiva adottata.
Anche se riluttiamo ad ammetterlo, è quello che facciamo tutti. Cerchiamo di afferrare la fuggevole verità nelle persone che ci stanno di fronte, per l’impulso che abbiamo a indagare gli ambienti nei quali viviamo e ci muoviamo abitualmente. Fantasticando, approvando o condannando, e non di rado proiettando sul volto degli altri quei ricami e quegli arabeschi che in realtà sono i nostri, e della nostra bizzarra geometria emotiva.
Gioele Marchis
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