L’Editorial

IMG_8767Classicamente, il viaggio è stato inteso come percorso iniziatico o esilio, a seconda che fosse frutto di una scelta libera o subita. Il Gran Tour si inseriva nel personale Bildungroman dell’uomo di cultura europeo, che si destinava così verso la meta che gli era propria, la forma cioè compiuta del Grande-borghese moderno. Poiché si traduce nell’allontanamento dalla comunità nella quale l’esiliato si era formato per esprimersi, l’esilio appare al contrario come la rottura di un destino. Come si vede, il campo semantico è comune: viaggiare è destinarsi o essere destinati. Si capisce che al trip è correntemente attribuito un valore eminentemente metaforico: si viaggia anche con una pasticca e il limite tra azione (libera scelta di assumere la dose) e passione (difficoltà nel dominare e dirigere le immagini che scorrono provocando spesso disagio e sgomento) è quanto mai labile. Così come Dante è stato certo allontanato da Firenze contro la sua volontà, ma il suo esilio è stato, ne converrete, tra i più iniziatici e formativi della storia della letteratura.
Questo per dire che a volte tra il destinarsi e l’essere destinati c’è differenza puramente verbale e quello che conta è che abbiamo un destino del quale siamo così poco coscienti che spesso lo pensiamo come predestino. Ci imbattiamo quotidianamente in individui più o meno fortunati che ci figuriamo come predestinati, o ci riteniamo al contrario noi stessi per virtù predestinati ma per destino sfortunati.
E collettivamente: passeggeri, viandanti, attraversatori di crocevia, profughi, nomadi, migranti: l’attraversamento dei campi semantici non è neutro né oggettivo, e basta solo un piccolo passo perché la sfumatura ci sposti nel significato accanto, e in quello accanto ancora, a riempirli, a volte dolorosamente, se non tragicamente, tutti. Ma in questo spostamento si giocano anche partite politiche cruciali: dal profugo al migrante, dal rom al vagabondo, non è solo questione di gusto.
Spazialmente: aeroporti, stazioni, piazze e confini, sciogliersi dell’identità o granitico consolidamento di essa, il viaggio ci mette di fronte ad ogni possibilità, del pensiero, dell’azione, dell’occhio. E dell’accettazione, anche, o del rifiuto. Anche qui, i non-luoghi, quello della da sempre spettrale sala aeroportuale e quello ormai mortifero del Mediterraneo, sono, a dispetto della loro indecisione morfologica, molto ben territorializzati: tra guardie costiere e non, sanno bene come bloccare flussi migratori (o nomadi invasori?).
Fiumi di esseri umani si spostano, si muovono, in fila o in corteo, in ogni direzione da sempre sulla Terra: e allora, anche e soprattutto oggi, è forse lecito chiedersi cosa voglia dire questa parola-pensiero-concetto, che divide e accomuna, e tutto il pesante bagaglio che può (o non può) portarsi sulle spalle.

Diwali – Rivista contaminata

Lascia il primo commento

Lascia un commento

L'indirizzo email non sarà pubblicato.


*