Le fantasticherie della donna selvaggia – Hélène Cixous

Cixous-photoÈ in una calda notte di luglio, in rue Philippe a Parigi, che il fantasma dell’Algeria torna a visitare Hélène Cixous. Dopo una lunga gestazione nel ventre della memoria, ecco che sopraggiungono le prime doglie, il travaglio, il parto della consapevolezza identitaria: la coscienza di non appartenere. “Tutto il tempo in cui ho vissuto in Algeria ho sognato di giungere un giorno in Algeria” scrive febbrile Hélène, incipit perduto e poi ritrovato di questo libro.

Nata nel 1937 a Orano, territorio coloniale francese, da una famiglia di origine ebraica, Hélène Cixous ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza ad Algeri nel quartiere del Clos-Salembier. In questo patchwork identitario un motivo prevale su tutti: l’Algeria, che si è insinuata nelle vene come una malattia che non lascia scampo e negli anni ha contagiato nuove regioni dello spirito. Una malattia (quanto rimane dello “sguardo coloniale” in questa definizione in negativo? [N.d.r.]) che ha come cifra la privazione e che consiste nella “impressione di essere posseduta da una sensazione di spossessamento”.

Algeria: terra di conquista, provincia coloniale che si sottrae allo sguardo del conquistatore. Hélène, figlia dell’impero coloniale francese, non possiede l’Algeria e non è neppure posseduta dall’Algeria: subisce il vuoto del rifiuto, la reclusione in una terra di nessuno, il divieto all’appartenenza. Il suo è il disorientamento di una figlia di fronte all’abbandono della propria madre, che l’ha partorita e tuttavia la costringe a un destino di orfana. Madre-patria, madre-lingua: chi è Hélène?  A quale terra, a quale cultura, a quale lingua appartiene? All’Algeria cui è legata da un cordone ombelicale o alla lingua francese che è modalità d’interpretazione del mondo e strumento espressivo? Solo la narrazione di sé, ossia la rievocazione del passato, può offrire una risposta: Hélène deve farsi levatrice della propria identità, come un tempo sua madre ostetrica nella Clinica di Algeri, se vuole comprendere le proprie origini.

Questo processo maieutico di autodefinizione si innesca a Parigi, come se la distanza spazio-temporale potesse garantire la chiarità di sguardo necessaria per fugare le ombre di un’esperienza in parte rimossa, certo trasfigurata. Insieme al fratello Hélène tenta di dipanare un garbuglio di fili contraddittori, perché il vissuto restituito dalla memoria individuale è necessariamente polifonico. Suoni visioni sogni si succedono in un inseguimento a scapicollo, nella corsa a perdifiato di Hélène verso un miraggio inafferrabile: verso l’Algeria, “una realtà senza realtà”, e dunque verso se stessa. Volti e oggetti cari – Aïcha, il Velò, il Cane – giganteggiano sullo sfondo tremulo di un eden perduto: “Ti suggerisco di chiamare questo libro il Paradiso perduto, dice mio fratello. Cioè l’inferno perduto, dico io. Tutto quello che perdiamo è paradisiaco, dice mio fratello. È infernale, dico io. L’inferno del paradiso”. Paradiso inaccessibile dietro le mura imbiancate a calce e inferno in bella mostra oltre il cancello aperto-chiuso della casa nel Clos-Salembier: attraverso gli occhi dei due fratelli la realtà algerina è un fronte, una trincea dove si consuma l’eterna battaglia tra desiderio struggente di inclusione (nei margini: sogno di appartenenza alla colonia) e delusione aspra di fronte agli usci serrati (fuori dai margini: accusa di appartenenza all’impero). E tre volte marginale è lo sguardo dell’autrice: in quanto francese, in quanto donna, in quanto bambina.

RO30099341Proiezione e ossessione, l’Algeria insiste: “nome vellutato della fuggevolezza”; miraggio di archetipica appartenenza, è l’origine per antonomasia, utero e matrice, eden da cui Hélène è stata espulsa, in cui non ha mai avuto e mai avrà diritto di cittadinanza, in cui la cacciata si accompagna a un destino di caduta, a un futuro precipitare nel pozzo dei ricordi senza fondo che agguantano di notte e costringono alla scrittura. La scrittura, infatti, è lo strumento della reminiscenza, scalpello della costruzione ostinata di sé, e tuttavia è dispositivo labile perché, come i ricordi, è passibile di perdita (si pensi all’episodio che dà inizio al romanzo).

Se passato e presente, Parigi e Algeri si confondono, e le coordinate spazio-temporali si liquefano nel territorio dell’interiorità, anche la lingua che abita Hélène prende a gorgogliare e a scorrere fluida, sottraendosi all’alveo regolatore della sintassi e tracimando nell’imprecisione fulgida della rievocazione, spazzando via punteggiatura congiunzioni nessi logici: “Con il cuore che batte insisto spio ancora oggi forse una porta può aprirsi nella Città di Algeri se busso molto forte alla memoria di mia madre ancora oggi cammino lungo il muro di cinta tasto sogno di entrare nel paese di cui sono l’aborto testardo”.

Perché fantasticherie? Perché il vissuto rievocato dalla Cixous si pretende prelogico, andrebbe ascritto all’atemporalità del mito, e nel ricordo si rivela sedimento spurio di una metabolizzazione parziale, di un fare-i-conti che non giunge mai a conclusione ma si ripete, rimugina, rimastica all’infinito.

Perché appunti selvaggi? Perché precedono il logos, pretendono una lettura quasi corporea, chiamano in causa i cinque sensi, sono scanditi da un ritmo ipnotico ed evocativo, un tambureggiare che echeggia nelle viscere e che costringe il lettore a cedere a un incanto quasi sciamanico, una litania che induce all’identificazione totalizzante che spiazza, disorienta. Perché nella memoria di tutti noi esiste un Clos-Salembier.

Michela Pistidda

 

TITOLO: Le fantasticherie della donna selvaggia – Scene primitive

AUTORE: Hélène Cixous

EDITORE: Bollati Boringhieri

PREZZO DI COPERTINA: 15,00 €

PAGINE: 123

ISBN: 9788833915913

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