L’artista che aveva seimila anni

2Negli anni Sessanta, intorno a quella grande antenna cosmica e generatrice di energia che è l’obelisco di Piazza del Popolo a Roma, orbitavano artisti famosi, italiani e stranieri, anche di livello internazionale, e molte cose accadevano. Specialmente lungo i tre assi viari del cosiddetto tridente, a quei tempi non era difficile imbattersi in attori, scrittori, registi, avventurieri pronti a tutto pur di farsi conoscere, e appunto artisti. Roma era un centro pulsante di attrattive e sperimentava, in quegli anni riconosciuta in questo da tutto il mondo. C’erano anche personaggi eccentrici che si consumavano notte e giorno pur d’inventare qualcosa di nuovo, di contribuire al progresso ognuno del suo settore e così facendo raggiungere l’ambita notorietà, se non la vera e propria fama. Roma era dunque una città in grande fermento, pronta a trasformarsi e reinventarsi, ad assorbire tutte le novità allora provenienti in larga misura dagli Stati Uniti, e a inglobare facendole sue le tendenze più avanzate del momento.
Naturalmente era un ambiente competitivo e le tensioni, sociali politiche e culturali, erano all’ordine del giorno. Non era facile farsi strada, ancor meno farsi un nome. Era necessario mettersi in gioco senza riserve, scervellarsi nella ricerca di nuove idee e nella realizzazione di opere mai viste prima, cercare in tutti i modi di espandere il campo della sperimentazione e quindi della conoscenza. A volte fino all’esaurimento delle energie e, in alcuni casi più sfortunati, alla tragica perdita di sé. Esporsi, rischiare, scandalizzare. E talora superare il punto di non ritorno. Roma stava vivendo quella che sarebbe stata la sua ultima grande stagione e che, già al volgere del decennio, guardava ai pochi bagliori rimasti come ai primi segni di un crepuscolo imminente. Gli anni Settanta infatti ne avrebbero segnato l’inevitabile epilogo.3
Attratto egli pure nel campo magnetico di quella grande calamita che è l’obelisco di Piazza del Popolo, nel 1965 arrivò dalle Marche Gino De Dominicis. Giovane pittore nato ad Ancona il primo aprile del 1947, già all’età di quattordici anni dipingeva come Edgar Degas ed Egon Schiele, con lo stesso tratto nervoso e tormentato, carico di sfumature emotive e velate ma potenti suggestioni erotiche. Gino arrivò nella Capitale alla guida di un trattore. Sfoggiava una folta chioma di capelli neri e un bel paio di baffi da moschettiere. Anzi, alla Salvador Dalí. Fu allora che l’obelisco lo catturò. Incantandolo con la sua strana e arcaica potenza, giorno dopo giorno lo inchiodò a rimanere nella Città Eterna fino alla fine della sua esistenza terrena che cadde il 29 novembre del 1998. De Dominicis scomparve improvvisamente a soli cinquantuno anni ma non senza aver ampiamente dimostrato, attraverso le sue opere, di che natura fosse il suo talento. E quanto lo spazio intorno alla stele di Piazza del Popolo si fosse rivelato per lui una specie di stargate, la porta delle stelle che dà accesso alle altre dimensioni.
Nel campo delle arti figurative propriamente dette, la seconda metà degli anni Sessanta rappresentò in Italia l’epoca d’oro dell’Arte Povera. In particolare, a Roma erano gli anni di Pino Pascali e Jannis Kounellis che esponevano all’Attico di Via Cesare Beccaria 22, la famosa galleria-garage di Fabio Sargentini situata davanti alla Porta del Popolo. All’inizio del 1969, in gennaio, Kounellis vi aveva allestito l’esposizione di dodici cavalli vivi. Il senso di quest’operazione, di matrice evidentemente concettuale, era quello di trasferire un tema pittorico classico e storicamente legato alla tradizione (quello dei cavalli, appunto) dal piano non-reale e bidimensionale della pittura a quello assolutamente reale e tridimensionale della realtà. Cioè ricondurre l’arte alla realtà e non più la realtà all’arte, com’era sempre accaduto in tutta la storia della pittura. Dai cavalli graffiti nella roccia delle grotte di Lascaux a quelli dipinti a olio nel corso del XX secolo da Franz Marc, ad esempio, e tanti altri. Dunque un’inversione di segno radicale e dirompente, mai vista prima. Forse una provocazione di tale portata non era stata neanche mai pensata. Questo il clima culturale di quegli anni. La voglia di provocare, innovare ed essere i migliori era nell’aria, sempre accesa e vibrante.
De Dominicis, il cui spirito trasgressivo e anticonformista non avrebbe tardato a manifestarsi, si mise subito in gioco e celebrò l’inizio del percorso artistico che stava per intraprendere con l’annuncio pubblico della sua morte. Tutto ciò che fosse avvenuto da quel momento in poi e tutti i lavori realizzati, sarebbero stati opera di un morto vivente. O a voler essere più corretti, di uno che seppe sopravvivere alla morte e pervenire a quella condizione atemporale e fuori dallo spazio propria soltanto degli immortali. L’Immortale è infatti il soprannome con il quale Gino De Dominicis è passato alla storia dell’arte. Il suo ormai celebre Necrologio è del 1969.
Dello stesso anno è anche l’opera intitolata Il tempo, lo sbaglio, lo spazio. Si tratta di una rivisitazione sui generis del tema classico della vanitas, nel senso di una riflessione sulla velocità e la presunta efficienza delle acquisizioni, scientifiche e tecnologiche soprattutto, dell’uomo contemporaneo. Uno scheletro umano con i pattini ai piedi tiene al guinzaglio un cane, anch’esso ischeletrito. La velocità e l’efficienza dei mezzi in dotazione alla contemporaneità hanno portato l’ugino-de-dominicis-lo-zodiaco-lattico-1970omo a morire prima del tempo, anziché aiutarlo, come avrebbero dovuto, a conseguire l’agognata immortalità del corpo. Una decina di anni più tardi, De Dominicis avrebbe integrato quest’opera con un’asta dorata, opera a se stante del 1967 intitolata Equilibrio 1, in magico equilibrio sulla punta e conficcata direttamente nel dito indice della mano destra dello scheletro. In questo modo l’artista volle rappresentare la possibilità per il morto, l’uomo ridotto a scheletro, di elevarsi a una dimensione superiore e ultraterrena, quella dell’immortalità, attraverso una sorta di ascensione dorata e spiraliforme, solare e tubolare. All’uomo è dato di toccare l’infinito soltanto nel momento supremo della morte, vale a dire quando trascende la vita mondana ed entra in una regione puramente spirituale. Difficile non pensare a una diretta citazione della michelangiolesca Creazione di Adamo della Cappella Sistina. Ma di segno contrario.
Dell’anno successivo (il 1970) è l’installazione dello Zodiaco, vero e proprio tableau vivant, sempre all’Attico di Sargentini. Di lì a breve sarebbe arrivata anche la carrozza con la mozzarella dentro (Mozzarella in carrozza del 1968-70). Il significato di queste opere era sostanzialmente lo stesso dell’installazione con i cavalli di Jannis Kounellis. Rendere tridimensionale e reale ciò che fino a quel momento era stato semplicemente grafico, pittorico e idealizzato. Come la simbologia legata a un arcaico sistema religioso mesopotamico fondato sul percorso apparente del Sole, e insieme degli animali, o il gioco di parole riferito a un tipico piatto della cucina italiana.
In quegli anni, sulla scia della Pop e della Minimal Art americane, tutto stava diventando pericolosamente passibile della definizione di artistico. Non si parlava più di artisti-creatori e opere d’arte sparse per il mondo, ma della nuova idea onnicomprensiva e intrinsecamente ambigua di mondo dell’arte. Del resto si parlava anche della morte stessa dell’arte, e della pittura in particolare. Si sentiva la necessità, ormai divenuta urgenza, di creare cose nuove e far risorgere rivoluzionandolo il lavoro artistico. Nascevano allora i concetti di performance, happening, environment, evento, installazione e azione artistica. Tutto, come già detto, era diventato arte. Il corpo umano, non di rado sottoposto a esperimenti fisici al limite della sevizia, il volto come schermo della sensibilità dell’artista e cartina tornasole della sua espressività nell’avvicendarsi dei vari stati d’animo, i comportamenti e le abitudini quotidiane, lo stile di vita, la voce e le sue proprietà, l’abbigliamento come estensione del messaggio veicolato dall’autore, la casa nella quale l’artista abitava. Gino De Dominicis percepì immediatamente il livello di rischio che si annidava sotto un’operazione ideologica di tale portata. Sentiva per istinto che un’estensione del concetto di arte di quelle proporzioni poteva condurre a un’ulteriore e indesiderata frammentazione. Sia pure, alla nebulizzazione finale. Le influenze, le reciproche contaminazioni fra generi e linguaggi diversi, erano agli occhi del pittore marchigiano, fondamentalmente romantici e conservatori quando si trattava di definire le competenze tecniche e le sfere d’azione di ognuno, poco meno di un’eresia.5
Ciononostante, non potendo sottrarsi al banco di prova dell’attualità, e anzi desiderando anche lui misurarsi con questi nuovi generi per dimostrare la sua abilità, De Dominicis si produsse in alcune performance ormai divenute memorabili e paradigmatiche per l’arte italiana di fine Novecento. In aperta contraddizione con la tendenza in lui prevalente al sarcasmo e al paradosso quali strumenti imprescindibili per leggere il mondo, tendenza che lo portava a intitolare le opere semplicemente Senza titolo o Con titolo, nelle performance di questi primi anni troviamo titoli veri e propri, in alcuni casi decisamente lunghi.
La prima è del 1972. Non si tratta propriamente di una performance, quanto piuttosto di un’installazione. Fu presentata nella sezione Opera e Comportamento della 36a Biennale di Venezia dello stesso anno e s’intitola Seconda soluzione di immortalità (l’universo è immobile). In quest’opera, che all’epoca fu causa di grande scandalo e alzò intorno all’artista un polverone di critiche e invettive da non finire più, De Dominicis mette in mostra quattro casi particolari d’immobilità che sono anche riflessioni sulla relatività del concetto di tempo così come lo s’intende comunemente, e della sua percezione. In realtà, si tratta di opere a se stanti messe insieme dall’artista appositamente per quest’occasione, con l’aggiunta del ragazzo affetto dalla sindrome di Down seduto in un angolo della stanza, come esempio vivente di essere umano che ha una percezione non ordinaria del tempo che passa. E anche, come volle precisare lo stesso De Dominicis alcuni anni dopo, in qualità di altro spettatore dell’opera, collocato in una posizione esattamente opposta rispetto a quella del pubblico della Biennale. Le tre opere principali sono Cubo invisibile del 1967, Palla di gomma (caduta da due metri) nell’attimo immediatamente precedente il rimbalzo del 1968-69, e Attesa di un casuale movimento molecolare generale in una sola direzione, tale da generare un movimento spontaneo della pietra del 1969-70.
La seconda performance è del 1973, s’intitola Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua, e faceva parte della mostra Contemporanea che ebbe luogo all’interno del parcheggio di Villa Borghese a Roma. In questa performance De Dominicis riprende l’antico tema filosofico e sapienziale della quadratura del cerchio (possibile soltanto passando per la fase dell’ottagono, per poi tendere all’infinito), già affrontato alcuni anni prima (nel skull_with_long_nose1969) nel video intitolato Quadrati Cerchi. Attraverso la ripetizione del gesto di tirare un sasso in uno stagno, azione meccanica evocatrice dell’infinito, l’artista-fachiro cerca di far formare dei quadrati sulla superficie dell’acqua, anziché i soliti cerchi. La natura ironica dell’azione artistica, oltre a evocare in maniera oscura e sottilmente inquietante il possibile sconfinamento in una dimensione parallela all’apparenza inaccessibile (nella quale si formerebbero i quadrati), sembra anche voler suggerire che è alquanto improbabile, come si dice da queste parti, che possa morire tondo uno che sia nato quadrato. Tentativo di volo, nel quale l’artista cerca appunto di volare attraverso una serie di inutili salti, è un video in bianco e nero della durata di due minuti. Risalente allo stesso periodo dell’opera precedente, ne condivide il senso di fallimento e sostanziale impossibilità.
Con queste opere De Dominicis intendeva mettere in discussione la percezione comune della realtà a favore di un ampliamento della dimensione del visibile e di un approfondimento della conoscenza. Lo fece attraverso la confutazione apertamente paradossale e provocatoria delle leggi della fisica moderna. Dalla termodinamica alla forza di gravità, allo spettro elettromagnetico. Fino alla meccanica quantistica e all’entropia, la grandezza misuratrice del disordine nell’universo, considerato da De Dominicis il peggiore dei mali possibili, che tuttavia, a coronamento delle sue fatiche, egli riuscì beffardamente ad aggirare. Insieme a quella di fermare il tempo, il sovvertimento delle leggi della Natura sembrava essere la sua idea fissa, il problema assillante della sua ricerca. E di tutta una vita. Grazie al paradosso offerto dalla realizzazione di sculture invisibili, prima solidi iperurani della geometria euclidea (con l’aggiunta di cono, cilindro e sfera), poi statue vere e proprie, De Dominicis arrivò a teorizzare il concetto di invisibilità, ancora una volta nel senso di possibilità di accesso a una dimensione parallela. Così nell’opera del 1969 intitolata Specchio che tutto riflette tranne gli esseri viventi, e nell’Autoritratto di Gino De Dominicis, invisibile seduto nel suo studio del 1995-97.
Verso la fine degli anni Settanta, come ad annunciare l’apertura di una nuova stagione, fa la sua comparsa nella produzione artistica di De Dominicis il volto attento e malinconico, come rassegnato a un’imminente tragedia di cui s’inizino a scorgere le prime avvisaglie, di una donna dall’incarnato lunare e gli occhi cerulei. L’opera del 1977 s’intitola Testa di donna sumera e la donna in questione è la cosiddetta Signora di Warka. Si tratta della fotografia di una scultura sumera databile intorno al 3200 avanti Cristo, ingrandita e ritoccata a olio dall’autore. Difficile non accostare questo volto a quello dell’angelo protagonista dell’incisione di Albrecht Dürer del 1514 intitolata Melencolia 1, o a quello dei personaggi dipinti da Leonardo da Vinci agli inizi del Cinquecento. Ma qui lo stato d’animo è più decisamente malinconico che non ammiccante ed enigmatico, come vediamo nelle figure leonardesche. Lo sguardo di questa sumera ci scruta da molto lontano, da quasi seimila anni fa. Ma allo stesso tempo sembra oltrepassarci in un futuro altrettanto remoto. È l’opera che osserva noi, dunque, non il contrario.7
L’assioma appena enunciato costituisce uno dei punti-chiave dell’intera poetica dell’artista, per il quale le opere erano creature viventi e generatrici di grande energia. Inoltre, sempre secondo l’autore, per esistere esse non avevano neanche bisogno di essere viste. De Dominicis dichiarava poi, e solennemente, di essere di gran lunga più vecchio di un artista dell’antico Egitto, avendo sulle spalle molti più secoli di Storia. Bisogna sempre tenere a presente che l’ironia, l’uso provocatorio del paradosso e una certa tendenza al linguaggio iperbolico erano le migliori frecce di cui Gino disponesse. Ad ogni modo, quest’opera ci testimonia la sua passione per l’arcaica civiltà mesopotamica dei Sumeri, il suo pantheon e la sua mitologia. La donna, in particolare quella qui rappresentata dalla Signora di Warka, era considerata da De Dominicis, in un’accezione che non è possibile approfondire in questa sede, come il doppio dell’artista stesso.
Con il riferimento al concetto di doppio, ci avviamo alla chiusura di questo scritto segnalando appena l’altra coppia di divinità presente nelle opere dell’artista, sempre a partire dalla fine degli anni Settanta. Naturalmente stiamo parlando di Urvasi e Gilgamesh (1979-80). Dea indiana della bellezza la prima (e non babilonese come Ishtar la quale, come sappiamo, è protagonista di ben altre vicende), artista-architetto e re sumero di Uruk il secondo. Un interessante precedente iconografico lo si ha appena qualche anno prima con Corrado Cagli, un altro pittore marchigiano nato ad Ancona ma più anziano di una generazione. Anche Cagli sembrava misteriosamente attratto dalla rappresentazione di figure simili a quelle che più tardi avrebbe dipinto De Dominicis. Urvasi e Gilgamesh, i cui volti sono ritratti di scorcio in silhouette nera, sono immersi nella contemplazione attonita e silenziosa di paesaggi primordiali e distanze siderali incommensurabili. Sono imponderabili visioni dello spazio, del tempo e dell’infinito. A questo proposito, accennando al cosmo e a galassie parallele, ricordiamo che una volta in un’intervista De Dominicis raccontò di un extraterrestre che avrebbe incontrato un sumero e gli avrebbe detto che non è mai esistita, né mai potrà esistere, un’astronave senza un quadro! C’è da dire che Gino credeva fermamente negli UFO e chissà che non ne abbia avvistato uno. Magari in una notte di fine estate, dalla finestra di una casa immersa nella campagna romana, come in un quadro di Ottone Rosai.

Si segnala il video su YouTube: L’IMMORTALE – Gino De Dominicis (di Giorgio Treves, 2011).

Simone Scaloni

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