La giovinezza di Yan Pei-Ming ha avuto luogo durante il difficile clima della rivoluzione culturale cinese, successivamente accompagnato da un periodo di apertura e di riforme civili e politiche. Nel 1981 si trasferisce a Digione, in Francia, dove ha costruito la sua carriera artistica nel corso dei due decenni successivi. La sua biografia è segnata quindi da cambiamenti radicali e drastici che pochi possono immaginare. Naturalmente non era il solo a passare attraverso questa esperienza complessa, ma indubbiamente Ming ha saputo distinguersi su tutta una generazione che ha vissuto e, soprattutto è sopravvissuta, ai drammatici cambiamenti geopolitici globali del post Guerra Fredda. Una generazione che ha contribuito in modo significativo alla ridefinizione del processo di globalizzazione.
Oggi Ming può essere considerato uno dei più grandi artisti dell’Occidente, con quotazioni delle sue opere che ormai raggiungono milioni di dollari grazie anche alla collaborazione con gallerie private di valore internazionale e alla partecipazione a due Biennali di Venezia. Una carriera in continua ascesa che ha convinto il direttore della GAMeC (Galleria d’Arte Moderna e Contemporanea) di Bergamo, Giacinto Di Pietrantonio, a dedicare all’artista cinese una prima “personale” in un museo italiano nel 2008. Venti opere esposte in un itinerario creato d’intesa tra il curatore (Giacinto di Pietrantonio) e l’artista stesso che si articola in quattro sezioni che ruotano intorno al tema dell’autoritratto. È proprio l’autoritratto il campo pittorico in cui Yan Pei-Ming mostra i maggiori spunti di riflessione, grazie alla sua visione della contemporaneità ripercorsa attraverso le icone di oggi, dal Papa a Bruce Lee, da Mao a Buddha, il tutto utilizzando indifferentemente tecniche molto diverse, dall’acquerello cinese alla pittura a olio europea. La sua pittura infatti, materica e realizzata con pennellate violente, è un ponte tra Oriente, terra di origine, e Occidente, terra di appartenenza culturale. Una lotta sia fisica che spirituale è sempre al centro delle sue attività creative, i suoi dipinti sono il risultato di azioni intense, dinamiche in forte contrasto con le strutture “congelate” di colori e forme. Sono rappresentazioni in agitazione costante, con pennellate lunghe e veloci che conquistano il terreno in movimento, spesso sviluppandosi su dimensioni molto grandi. Tuttavia le sue opere non sono affatto riducibili a semplice “espressionismo” stravagante: la sua pittura può essere definita molto “economica” e minimalista, spesso in bianco e nero, a volte rosso e bianco, gli unici colori con cui costruisce la sua realtà pittorica, con cui esprime e descrive la navigazione tra la sua memoria e le sue preoccupazioni “umanistiche”. Le grandi tele a olio con cui Pei-Ming si è distinto sulla scena internazionale, sono realizzate con una tecnica propria della tradizione occidentale che l’artista dipinge unicamente nel suo studio a Digione. Al contrario gli acquarelli, creati soltanto durante i suoi soggiorni a Shangai, rimandano alla tradizione pittorica orientale. Una distinzione che non ha mai come obiettivo quello di identificare un luogo geografico di appartenenza ben preciso ma diviene sinonimo di atemporalità e non luogo: Est e Ovest uniti in una mescolanza di stili, elementi, soggetti. L’uso dell’acquerello ad esempio rappresenta per l’artista un momento importante: si tratta infatti della tecnica che utilizza per rappresentare la fase iniziale della vita (i bambini), ma anche e soprattutto teschi e autoritratti di “morte”. Vita e morte intrecciate in cui l’autoritratto diventa un simbolo, la messa in scena della morte o meglio del suicidio, quindi la fine programmata, lascia intendere che l’artista è in grado di decidere su tutto e non solo sulle sue opere ma, forse proprio attraverso di esse, sulla vita e sulla morte. Come accennato in precedenza questo percorso avviene attraverso l’uso di icone celebri e figure storiche che hanno esercitato influenze profonde su di lui e sui suoi contemporanei e che si trovano regolarmente rappresentati nei suoi dipinti. Non sono solo le immagini che hanno segnato la sua memoria degli spazi pubblici dominati dalla propaganda del maoismo e da altre ideologie, ma sono anche elementi chiave che costituiscono la sua memoria intima e personale e la sua ricca immaginazione. Solitamente il ritratto è la trasposizione su tela di un uomo in un momento preciso, invece, Ming riesce a dipingere un uomo senza fargli un ritratto, sfruttando la sua icona pop per creare qualcosa di “larger-than-life” (più grande della vita), una immagine comunicativa che vale ovunque nel mondo e in ogni tempo. L’artista cinese riesce a riflettere, infatti, sulla mortalità nel mondo delle icone: Mao sembra non essere mai stato così vivo, così intenso. Se da lontano la tela ci ispira una certa sacralità, ci parla di un mito, da vicino, al contrario, ci sembra di poter toccare qualcosa di così lontano da noi, di avere con lui un’intima confidenza, creando un mix di sacralità e confidenza proprio delle icone pop. Ming reinterpreta un’icona, un’immagine che tutti noi abbiamo fissa in mente sviluppando un’operazione come quella che, anche inconsciamente, facciamo tutti noi ogni giorno: una ricerca di mediazione tra la libertà di immaginazione e le strutture psicologiche e le immagini che ci vengono imposte da TV, pubblicità, cinema. Ed è chiaro che, reinterpretandole, dà una nuova urgenza ad immagini ormai stereotipate: ci mette dentro, con la violenza della sua pennellata, la lotta, la provocazione, l’azione, la coscienza.
I ritratti di Ming sono lontani da qualsiasi tipo di celebrazione o culto di quelle personalità, al contrario, essi sono provocatori, critici, e anche sovversivi. I personaggi sono sempre presentati in una sorta di ambiente incerto con i titoli che spesso pongono problematiche morali, come ad esempio, in riferimento a suo padre, “l’uomo più rispettoso”, “l’uomo più odioso”, ecc. Inoltre, sono spesso immagini definite “politicamente scorrette”: nel 1990, ha prodotto grandi serie di ritratti di persone ai margini della società, come detenuti, prostitute, e bambini senza casa, dipinti in modo particolarmente celebrativo. Una scelta artistica molto discussa in Francia, dove qualche anno fa, si sono svolti una serie di dibattiti pubblici sull’opportunità morale di rappresentare i ritratti di alcuni criminali e politici, in occasione della presentazione dei dipinti di Yan Pei-Ming nella mostra La Force de l’art, un evento organizzato dal governo. Indubbiamente l’atto più provocatorio e spettacolare dell’artista cinese è il suo recente progetto Les Funérailles de Mona Lisa esposto al Louvre nel 2009. Nella sala a destra dietro la Monna Lisa, esempio straordinario di pittura iconica e simbolo indiscusso del museo più visitato al mondo, Ming ha installato una serie di tele di grandi dimensioni che rappresentano repliche della Monna Lisa al centro e ritratti del padre Ming e dell’artista stesso in uno stato di morte. La pittura intensa, inquietante e misteriosa provoca un’esperienza assolutamente sublime per il pubblico, che rimane impressionato e anche scioccato dalla visione di queste tele dopo aver apprezzare l’originale Mona Lisa. Duplice la possibile interpretazione: è l’artista che cerca di elevarsi al rango dei più grandi della storia? O è semplicemente un suggerimento di sepoltura definitiva dell’ideale di bellezza stessa?
L’ideale di bellezza per Ming è profondamente legato alla questione del destino dell’umanità: “il come” rappresentiamo le immagini può profondamente influenzare il modo in cui percepiamo e comprendiamo la vita e la morte, la realtà e il dramma, la gioia e il dolore. Nel corso degli ultimi anni, ha infatti esteso la sua ricerca e la sua sperimentazione artistica in una nuova direzione che lo coinvolge e lo impegna direttamente nei confronti dei conflitti sociali mondiali e le loro conseguenze. Intorno a questa riflessione nascono ritratti di bambini del terzo mondo dove si percepiscono drammaticamente gli effetti della guerra, la fame, la povertà, e altre tragiche situazioni: un esempio tra tutti è il suo lavoro Sudanese Child (2006) proveniente dalla Collezione Deutsche Bank, dove i bambini sono mostrati fianco a fianco con quelli dei segretari generali delle Nazioni Unite, così come i soldati coinvolti nella guerra in Iraq.
Di fronte alla crisi attuale e al cambiamento politico, Ming ha messo a punto nel maggio/giugno del 2009 un progetto ideato per la sua mostra al San Francisco Art Institute: figure eroiche come Barack Obama e soldati americani sono allineati fianco a fianco con le banconote in dollari USA e l’immagine di Bernard Madoff, ormai diventato il simbolo di questa crisi economica, dei mali della finanza, degli eccessi e delle speculazioni. Yan Pei-Ming ci fa capire, insomma, che noi siamo un prodotto culturale che affonda le sue radici nei secoli passati, ma che oggi ciascuno di noi, uomini della società delle immagini, non è che la somma dei suoi miti, svuotato di una propria qualsiasi interiorità.
Il lavoro artistico Ming, pur affidandosi principalmente alla pittura, non esclude assolutamente la continua ricerca di sperimentazione e cambiamento. Nel corso degli ultimi anni, ha sperimentato nuove strategie per integrare nello spazio pubblico le sue creazioni in studio: un continuo avventurarsi oltre lo spazio del museo tradizionale, invadendo spazi pubblici utilizzando forme espressive diverse dalla tela tradizionale, bandiere, poster, e così via, al fine di mobilitare l’opinione pubblica e la consapevolezza sociale. Questa provocazione non solo cerca di sovvertire la consuetudine della rappresentazione artistica tradizionale, ancora più importante, sfida il senso comune dei valori del linguaggio diffuso e delle strutture socio-psicologiche, il rapporto tra la libertà di immaginazione, di rappresentazione, e le convenzioni sociali che sono sistematicamente conservatrici. L’opera di Ming, oltre a essere politicamente coinvolgente, può essere considerata uno specchio drammaticamente preciso dei grandi stravolgimenti economici e sociali in atto nella nostra vita contemporanea. [VF]٭
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