
L’interrogazione nasce sin dal nome, che porta l’ambiguità come fardello etimologico: i greci dicevano pròsopon, pròs-ôpon, per indicare tanto la maschera quanto il volto.
Viso dunque, maschera, o ancora e più genericamente e semplicemente “ciò che sta dinnanzi agli occhi”.
Problematizzazione iniziale, eziologica persino. Se, sin dalla sua emergenza al significato, il volto è luogo di attraversamento, luogo di un dire che ha sempre un sopravanzo di senso.
Maschera e/o volto.
Maschera che non dissimula, bensì sostituisce il volto che ricopre. Volto che ha la facoltà dissimulare, cosa che la maschera non consente.
«La maschera è l’uomo senza la garanzia del volto»*.
E ci imbattiamo in un possibile rovesciamento di senso, se abbiamo sempre pensato alla maschera come qualcosa che permette, appunto, il mascheramento delle emozioni.
Ma lo scambio tra la maschera e il volto è continuo, vede coinvolti entrambi i termini della comunicazione, fino a sfiorare la possibilità estrema di una coincidenza, o persino di una sostituzione. Maschera che tanto si innesta sul volto da divenire il vero volto, in quanto rivelazione incapace di simulazione, rivelazione strutturalmente foriera di manifestazione.
Ma, come dicevamo, nella terminologia greca la parola pròsopon significa viso e anche maschera. Non esiste differenziazione linguistica che lasci lo spazio per adombrare anche solo un’idea di dissimulazione.
E la maschera, dunque, non dissimula, ma va a sostituire il viso che ricopre, diventa altro attraverso lo sguardo dell’altro, così come il viso manifesta la propria individualità venendo riconosciuto e riconoscendosi negli occhi e nella faccia dell’altro che guarda.
Viso e maschera si inverano in questa relazione reciproca, che si gioca nella continuità dialettica tra alterità e identità, nel darsi della quale lo spazio dell’ambiguus è sempre e comunque sotto gli occhi di chi guarda, come sotto gli occhi di chi viene guardato.
La maschera greca ci dà la possibilità di pensare ad una alterità che si annida nell’uomo costitutivamente, e lo fa senza delega alcuna all’allusività. La maschera è il volto dell’uomo, che via via indossandone incarna l’altro** . E potremmo connotare tutto questo come un esercizio alla convivenza con l’altro e con l’altrove, che va perduto nel momento in cui le distanze tra la maschera e il volto si accrescono e si sciolgono i legami reciproci esistenti tra questi due termini.
Tematica problematica e problematizzante quella dell’incarnare la maschera, laddove quest’ultima palesa la possibilità di essere gettati nei luoghi dell’alterità. Un’alterità da vivere sperimentandone i confini, che potrebbero persino condurre in luoghi lontani dall’umano e sconfinanti nei mondi del divino, del daimon che possiede l’uomo mostrandogli come la sua ambizione possa essere il trascendimento della sua stessa condizione, umana per l’appunto.
Ma la maschera diviene anche un modo di dare forma a questo altro e a questo altrove, assume la speranza di una parlabilità, di una assunzione nelle singole vite e di una accettazione di una condizione di ineliminabile ambiguità.
La maschera che diviene volto.
Prolungamento del volto.
Possibilizzazione a che ciò che ci travalica come singoli volti possa albergare in questa terra nullius che consente il contatto con un sapere che resti pur sempre riconoscibile, per il tramite della maschera appunto.
«Tutto ciò che è profondo ama la maschera…Ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera; e, più ancora, intorno a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera. Talvolta la follia stessa è la maschera per un sapere infelice troppo certo».***
* L. M. Lombardi Satriani, D. Scafoglio, Pulcinella. Il mito e la storia, Milano, Leonardo, 1990, p. 322.
** Cfr. sull’argomento B. Callieri, L. Faranda, Medusa allo specchio. Maschere fra antropologia e psicopatologia, Roma, Edizioni Universitarie Romane, 2001, p. 66 e sgg.
*** F. Nietzsche, Al di la del bene e del male, Milano, Adelphi, 1977.
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