Il Quinto InVerso

“Mi vergogno di tutti i miei pensieri” scriveva Hölderlin dai confini della follia.

Il suo stato di schizofrenico catatonico, secondo la diagnosi che gli procurò un ricovero psichiatrico e poi la solitudine nella torre sul fiume Neckar fino alla morte, progredì insieme alla sua “vocazione di poeta”, al modo assoluto di vivere solo per la poesia, al suo completo isolamento interiore.

Il grande poeta tedesco potrebbe essere il caso esemplare dal quale avviare una riflessione sul rapporto tra arte e psicosi, tra l’ introversione dell’artista, l’isolamento e il trauma nei confronti della vita e del mondo. Si potrebbe riscrivere una storia dell’arte o della poesia sotto la lente del disagio psichico e del ruolo della follia nel processo creativo. Pensiamo a Dino Campana, Amelia Rosselli, Alda Merini e a i tanti artisti visionari che hanno vissuto la loro stagione all’inferno, per citare Arthur Rimbaud.

“Io dico che bisogna essere veggente (…), mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi”, in Rimbaud l’obiettivo di una scrittura come “macchina totale”, linguaggio poetico fatto di allucinazioni e vertigini che racchiuda tutte le sensazioni, suoni e odori, implica che l’artista debba avere il coraggio di andare incontro al trauma.

Significa scendere verso le profondità abissali dell’animo umano, come ben sapeva Edgar Allan Poe, scandagliando nevrosi e disturbi percettivi, aprendo la porta alla follia per guardarla in faccia senza paura: “Mi hanno chiamato folle; ma non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di ciò che è glorioso, se tutto ciò che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale”.

Il resto è creazione immaginifica e visionaria di un intelletto “eccitabile” e lucido che sa di non sognare ma di essere preda di “fantasmi”.

Trauma e creazione: gli stimoli per meditare e creare non mancano.

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