Del Fuoco Femminile

Questo testo poetico, estrapolato da un più ampio poema storico, si colloca nell’ambito di una riflessione intorno ad un vasto ed inesplorato territorio psichico femminile affastellato di rovine. Guidata da una “cantadora” d’eccezione, Clarissa Pinkola  Estès, ho ritrovato l’impronta sotterranea di un istinto potente e rimosso, quello di una  donna archetipo, di una donna selvaggia.

Pinkola Estès, analista junghiana, custode delle storie più antiche raccontate in trance intorno al fuoco, è grande esploratrice della mitologia mondiale, di simboli e archetipi e si definisce discendente “di un’antica e immensa comunità di santi, trovatori, bardi…poeti erranti, vagabondi, streghe e pazzi”.

Le storie curano, le storie sono nutrimento, le storie fortificano e si possono anche mettere in versi per supportare il lavoro psichico finalizzato alla conoscenza, all’individuazione e alla libertà di una coscienza consapevole.

La donna in cammino che segue una pista nel bosco (sia pur esso un caotico bosco metropolitano) chiama a sé anche gli animali, “la terra, i bambini, le sorelle, gli amanti e gli uomini”.

Eppure come i lupi le donne sono state perseguitate, ci rammenta la Pinkola Estès, considerate specie pericolose e voraci: “sono state il bersaglio di coloro che vorrebbero ripulire non soltanto i territori selvaggi ma anche i luoghi selvaggi della psiche, soffocando l’istintuale al punto da non lasciarne traccia”.

Allora resuscitare la voce della psiche profonda in questo farsi dell’anima appassionata richiede una facilità e felicità di scrittura che nel mio caso coincide con il ritmo, la danza grafica e grammaticale, la musica vergine incantatoria del verso.

 

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 C’era una volta…

Una vecchia, una strega, si! una Baba Jaga

 

Magari irrompono dalle foreste

con le rughe dei tronchi

e i canti nelle ossa.

Sono animali che amano, le pazze

portandosi  dietro teste o zampe come stendardi

come grida vuote,

lupe vaganti

 

o Ecate

con le ovaie impollinate.

 

La nostra bellezza sta molto più avanti

del nostro corpo, sembrano dire.

 

Escono

cariche dell’energia sanguinaria

dei supplizi.

 

È tutto in gioco ciecamente dal basso

e bisogna scendere, risvegliare le massacrate

con coraggio, con ragnatele

bendarne gli scorticamenti

per poi spiarne i crimini d’amore.

Nei cenerari.

 

Siamo curiose.

 

Le cose spaventose cercano una dimora

nelle fosse

là, dove è pieno questo nome, Baba Jaga

gigantesca teschia del caos

strega sfasciata d’ombra, carne del vaiolo

e verruca di rospo.

Lei cavalca la scopa funeraria e ci ramazza

il fango con i capelli sottoterra delle mummie

diventati unghie e coltelli. Taglia così le sue tracce

nel vuoto. Non vista la maledetta si chiude

dentro la sua baracca e il chiavistello è mortaio

di denti umani cariati. Serratura vivente ed affamata.

 

Intanto la casa balla.

E lei si gratta dentro. Una palafitta danza

su i mille piedi freddi di pollo e di gallina,

casa che ride, e lancia calci ai corvi.

 

La vecchia si è spogliata nuda,

che sesso gonfio e scabro, perde sangue

guarda: dalla vagina pende carne viva attorcigliata

che lei ramesta e impasta  tra le cosce.

Intanto balla e ride con la casa all’aria.

 

Alza la polvere e le larve

basta una rima la filastrocca una catena

e il fantasma balena:

 

gli impiccati si sono accucciati fuori come cani.

 

Gli omuncoli scalciano nelle ampolle

desiderosi di vita.

 

Poi cadono come macigni grida

dalla  nebbia dei crematori,

quei forni di Siviglia, Los Quemaderos:

pentoloni per quaranta dannati

da cuocere a fiamma bassa in trenta ore

di lancinanti “Non muori!! Non muori!!”

 

Lei esce all’ora di cena

comincia a veleggiare dentro un pesta sale

il remo furioso della navigazione è il pestello.

Da lontano fa orrore.

 

Ah Ah Ah

Favola che si racconta ai bimbi

cattivi col carbone.
 
 
 

Letizia Leone

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