
“Non vediamo le cose per come sono, ma per come siamo”. Questa frase tratta dal Talmud la ritroviamo nel testo del filosofo tedesco del XVIII° secolo, Immanuel Kant e tra gli scritti della scrittrice statunitense Anaïs Nin. Potremmo servirci – e lo faremo – di questa frase anche ora per ricercare una visione della visione nell’arte o/e nella poesia.
La stessa autrice in Mistica del sesso scrive: «perché si scrive è una domanda a cui posso rispondere facilmente, dato che me lo sono chiesto così spesso. Penso che un autore scriva perché ha bisogno di creare un mondo in cui poter vivere. Io non potrei mai vivere in nessuno dei mondi che mi sono stati offerti: il mondo dei miei genitori, il mondo della guerra, il mondo della politica. Dovevo crearne uno tutto mio, come un luogo, una regione, un’atmosfera in cui poter respirare, regnare e ricrearmi quando ero spossata dalla vita. Questa, credo, è la ragione di ogni opera d’arte».
L’arte dello scrivere quindi è ricerca di un mondo in cui vivere, creazione di una propria dimensione immaginata e quindi visionaria, ma anche reale perché in collegamento con il presente e con il lettore (presente, ipotetico o futuro).
L’arte è visionaria in quanto non ha a che fare solo con oggetti reali, ma anche e soprattutto con oggetti mentali: se è imitazione è una imitazione soggettiva, vista dall’autore in modo più o meno originale; per Aristotele l’arte ricrea le cose secondo una nuova dimensione e in questo senso essa è superiore alla Storia.
La poesia è senz’altro visiva ma anche visionaria. Parte cioè dall’osservazione della realtà per manifestare, rendere cioè manifesta, una visione.
La visionarietà della poesia lavora sul tempo e sulla realtà oggettiva per disoggettivarli servendosi della vista (esteriore e interiore), della parola e degli strumenti propri alla poesia.
Se il fine poetico è quello di mostrare, di rivelare una visione, se il poeta è un mistico allora «ci saranno squarci nello spazio che diano su un’altra parte…», come scriveva Fernando Pessoa.
Mi piace pensare alla poesia come qualcosa che apra nuove dimensioni agli occhi dell’anima, una fessura da cui filtrino nuovi orizzonti di luce e bellezza, di abisso e di tenebra che possiamo toccare. Dimensioni, queste, di valore non assoluto, che non vogliono essere imposte. Il poeta è un mistico ma non è un guru che guida verso la verità dei suoi testi. Nessun testo poetico è una verità assoluta, semmai solo uno squarcio, appunto, da cui è possibile sfiorare una parte del tutto.
Uno degli strumenti di cui la poesia si serve per raggiungere questo scopo è la metafora, che è un tropo, una figura retorica, e che consiste nel trasformare una parola, un’espressione, in un’immagine figurata. La metafora, (dal greco μεταφορά, da metaphérō, «io trasporto») come suggerisce il suo stesso nome, implica un trasferimento di significato. Un trasferimento che si applica certamente da un significante a un altro, ma anche da una persona all’altra e da un testo scritto alla collettività. L’artista porta la sua visione del mondo al mondo, la rende visibile, comunicabile.

Esistono, accanto ai linguaggi che costatano, descrivono, ordinano dei fatti, altri linguaggi – come quelli poetici, simbolici, religiosi – che ricorrono soprattutto alla metafora e sono linguaggi di ridescrizione e di metamorfosi della realtà. Una tradizione consolidata, quella retorica, considera tali linguaggi come esclusivamente rivolti alla persuasione appunto mediante gli artifici retorici. Questi linguaggi ad alto valore ornamentale non avrebbero valore informativo, di referenza alla realtà. “È possibile superare questa lettura retorica della metafora e giungere a una lettura poetica, cioè considerare la metafora come strategia linguistica capace di dare conto della creazione di un nuovo significato, come linguaggio di rivelazione?” In realtà i linguaggi metaforici non sono carenti di un vero rapporto con la realtà, anzi sono linguaggi portatori di una sovrabbondanza di senso. Il linguaggio poetico-metaforico, proprio perché non vuole mostrare la realtà come è, cancella il mondo come complesso di oggetti disponibili, manipolabili, e apre nuove dimensioni della realtà. Tentare di mostrare la legittimità di tali linguaggi vuol dire aprire al linguaggio umano, e all’uomo, altre vie che non sono quelle della dominazione: dominazione delle cose, dei segni ridotti alla loro funzione strumentale.*
Tutta l’arte, infatti, ha questo compito sublime di trasportare il fruitore, ma anche prima di tutto l’artista e quindi il poeta, in una nuova dimensione, spesso surreale, a volte surrogata, e altre volte del tutto immaginifica per comprendere meglio la realtà e per mediare ciò che della realtà non comprendiamo o addirittura, rigettiamo. Anche Aristotele affermava che «l’impossibile verisimile è da preferire al possibile non credibile» perciò la visione altro non è che uno strumento potentissimo della coscienza per trascendere quello che Freud chiamava unheimlich, il perturbante, tutto quello che, pur essendo familiare (heim = casa), si presenta in modo inconsueto, sorprende, turba, o addirittura spaventa, genera angoscia e orrore.
Per andare oltre il visibile e rendere manifesto ciò che è nascosto in casa l’arte e la poesia si servono proprio della visione, del resto «l’arte non riproduce il visibile, piuttosto rende visibili forze che non lo sono» usava dire il musicista, poeta e pittore tedesco Paul Klee. La capacità di vedere oltre il mero dato concreto attiene proprio a quella parte della nostra mente che si attiva nei sogni o quando creiamo qualcosa che non è al momento percettibile o sensibile: la mente creativa.

E la poesia, che è la creazione di un nuovo linguaggio, è un fare che attiene alla sfera linguistica ma anche immaginativa, perciò con quegli strumenti che le competono consente di pro-gettare nuovi ponti di comprensione. Attraverso la comprensione di come la poesia opera capiamo anche l’etimologia della parola stessa: dal greco ποίησις, poiesis, con il significato di creazione e quindi dal verbo poiein, fare, la poesia costruisce quei collegamenti su cui possiamo camminare meglio per attraversare il paesaggio reale e presente, ma anche futuro. Ecco perché la visione non attiene solo al presente, ma si serve del passato come una base per gettare nuovi semi nel futuro.
E poiché tutte le arti sono in comunicazione tra di loro e camminano sui ponti creati da visioni vorrei servirmi di una bellissima citazione dell’ingegnere e designer Isao Hosoe per gettare un ponte di collegamento su una realtà che, per molti, può essere difficile da comprendere o da accettare, perché, in qualche modo, siamo portati a collegare la visione e la visionarietà alla follia, o a qualcuno che è fuori di senno, al di fuori cioè della realtà.
In parte potrebbe anche essere vero ma…l’artista che riemerge dalla propria visione ha in mano la chiave di lettura attraverso cui operare che lo riporta a casa, egli si affaccia da un ponte dove percepisce anche l’abisso della follia e può penzolare su questo strapiombo senza cadere, aprendo cuore e mente alla creazione. Isao Hosoe dice che «pro-gettare è come lanciare un sasso in uno specchio d’acqua, le onde si propagano in tutte le direzioni, verso il futuro e verso la persona che ha lanciato il sasso».
La poesia è quindi un sasso gettato in avanti nella dimensione spazio-temporale, in grado di metterci in relazione con l’altro ma anche con noi stessi. «È un filo elettrico in grado di connetterci con l’infinito, con la natura, con l’anima del mondo. È come la preghiera dei mistici, senza più lingua di appartenenza, senza marchi di religioni superiori, senza confini» (Fuad Rifka)
L’arte e la poesia consentono all’artista di viaggiare in una dimensione simbolica senza che questa possa trascinarlo nella follia facendolo vivere per sempre in questa dimensione. È appunto, un ponte, uno strumento che permette un dialogo costante tra la parte più selvaggia e disorganizzata del cervello e quella più pesata e razionale. Il prodotto di questo viaggio che riporta a sé stessi è la creazione, attraverso cui anche il fruitore si riconosce o può riconoscere quelle parti di sé non visibili.

Riallacciandomi alle citazioni di apertura di Anaïs Nin desidero concludere questo ponte con una riflessione di Umberto Eco inclusa nel saggio Sulla Letteratura che mi torna in mente ogni qual volta sento pronunciare la frase: “io scrivo solo per me stesso/a” come se la visione che egli/ella abbia avuto possa essere qualcosa che gli/le appartiene totalmente.
Eco dice – dovrei scrivere “diceva” ma posso anche rifermi al presente grazie al ponte dei suoi scritti che continua a farlo vivere in diverse dimensioni temporali – e quindi Eco dice: «il bello dello scrivere un romanzo non è il bello della diretta, è il bello della differita. Sono sempre contrariato quando mi accorgo che uno dei miei romanzi volge alla fine, e cioè che, secondo la sua logica interna, è ora che esso (che lui, che lei) finisca, e che io smetta. Quando mi accorgo che, a continuare ancora, lo peggiorerei. Il bello, la gioia vera, è vivere per sei, sette, otto anni (possibilmente all’infinito) in un mondo che ti stai costruendo a poco a poco, e che diventa il tuo. La tristezza incomincia quando il romanzo è finito. Questa è la sola ragione per cui desidereresti scriverne subito un altro. Ma se non è lì, che ti attende, inutile affrettare i tempi. […]
Però non vorrei che queste ultime affermazioni ne incoraggiassero subito un’altra, comune ai cattivi scrittori: che scrivi solo per te stesso. Diffidate di chi dice così, è un narcisista disonesto e mendace. […] Si scrive solo per un Lettore. Chi dice di scrivere solo per se stesso non è che menta. È spaventosamente ateo. Anche da un punto di vista rigorosamente laico. Infelice e disperato, chi non sa rivolgersi a un Lettore futuro».
Umberto Eco riconosceva alla letteratura la duplice funzione di ponte “da e verso” per cui, la visione di un proprio scritto, sia esso poesia o romanzo o altro conduce oltre che a sé stessi e alla propria dimensione visionaria, fuori dalla realtà, anche all’altro; è cioè sempre un ritorno alla dimensione del reale ma arricchito di una nuova visione, quella dello scrittore.
* P. Ricoeur, La metafora viva. Dalla retorica alla poetica: per un linguaggio di rivelazione.
Valentina Meloni
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