Bernard Journo: Tokyo

Tokyo

Un anonimo ascensore che quasi si affaccia su una strada nel quartiere Ebisu, vicino a Shibuya, si apre e mi porta al secondo piano dove mi accoglie una ragazza cicciottella prendendomi il cappotto. Nell’aria il suono di musica jazz con tromba solista, che ricordavo come ingrediente essenziale della magia del posto in cui ero stato un anno fa. Il locale è piccolo, un bancone semicircolare con una decina di posti a sedere e con alle spalle una piccola cucina nascosta da una porta. Dietro al bancone c’è Kanizawa san, corpulento sushi chef di circa 50 anni, portati male, dai trascorsi illustri presso i migliori ristoranti di Tokyo ed ora proprietario del suo “buchetto”. Per la prima volta noto la sua straordinaria somiglianza con Louis Armstrong. La ragazza, che ora realizzo essere la figlia, mi fa sedere all’estremità del bancone vicino ai sei commensali e mi porta da bere uno shochu con ghiaccio. Kanizawa non capisce una parola di inglese, gli accenno “Italian”, “last year”, sperando che si ricordi di me, ma, imbarazzato,con il suo cappello a barchetta in testa, fa cenno di non ricordarsi. Si rassicura quando mi vede bere di gusto lo shochu (1) on the rocks. Ha sempre con se il suo bibitone, un bicchiere alto 3 volte il mio, con shochu e ghiaccio, da cui trae avidamente ispirazione ogni 3-4 minuti quando si svita il coltello da sashimi dal braccio.

Lo shochu pare mostrarmi già il suo effetto quando mi appare un Kanizawa sdoppiato, due Kanizawa pressoché identici, uno dei quali è più giovane e più grosso che sembra materializzare il fantasma del giovane Kanizawa apprendista sushi chef. Si muovono da un lato all’altro del bancone a passi di jazz ed ogni 3-4 minuti anche il giovane si volta in disparte per tirare un sorso prolungato di shochu. È Satchmo 2 , il figlio che da soli 8 mesi ha raggiunto il padre dopo un apprendistato presso uno chef amico di Kanizawa.

È lui a disporre un piatto rettangolare di fronte a me con una montagnetta di gari (2), una di alga wakame, una di wasabi (3) appena grattuggiato sulla tavoletta con pelle di squalo ed un piattino con ponzu (4) in cui galleggiano pezzetti di erba cipollina. Con aria complice Satchmo padre mi offre una ciotola con pezzetti di granchio reale. “Kani!” esclamo, e lui, sorpreso e felice, come lo era stato l’anno prima nella medesima occasione, sorride, esattamente come Satchmo e dice “Hai… Kani!”. Assaggio il Kani intingendolo nella salsa ponzu, buonissimo, come al solito.

01_IwashiPoi dispone sul piatto due fettine di Kampachi (5) che imperdonabilmente avevo scambiato per Hamachi (6), e lui mi corregge, due di Hobo, pesce bianco di Hokkaido, ora di stagione, e due di ika, seppia finemente tagliata a libro. Assaggio con insolita avidità disponendo pallette di wasabi sul pesce, oltre a quello precedentemente diluito nello shoyu (7), e mi ritrovo in quella sensazione magica creata dal combinato disposto della musica jazz, del risveglio del gusto e del secondo bicchiere di shochu, in cui ti sembra che tutto si concateni nella perfetta armonia e che nulla al mondo in quell’attimo potrà interromperla. Arrivano due maki (8). “Iwashi?”(9) gli chiedo. Mentre assaggio il primo, lui fa cenno di sì, ma poi realizzo che, non solo la nori (10) croccante e che sa di mare contrasta con il sapore ispido dell’iwashi, ma c’è anche la dolcezza del riso e qualche altra diavoleria che ne fa una sinfonia di sapori che continua ad echeggiarmi nel palato e nella testa. Satchmo 3, la figlia, porta il primo piatto caldo. Una conchiglia gigante di lumaca di mare nella cavità della quale è stato creato un minuscolo mare di tsuyu (11) nel quale galleggiano pezzetti di carne di lumaca e di erba cipollina. Come sollevo la testa dall’immersione in quel microcosmo di mare vedo nel piatto rettangolare comparire come per incanto, pezzi di mirugai, un mollusco dalla forma falloidale surreale che da noi è ancora sconosciuto. Hanno il sapore di cenere di brace e la consistenza della carne d’aragosta. Il succesivo gunkan (12) di uni, riccio di mare di hokkaido, emana il suo fascino inqiuetante e non me la sento di assaltarlo, lo osservo per un po’ in contemplazione.

Quando decido che è giunto l’attimo, questi non fugge, resta lì per un tempo interminabile, la nori è croccante, il riso e l’ uni si fondono in un boccone delizioso che ti lascia un sapore dolce prolungato sul palato. Mentre contemplo, mi si presenta ad un palmo dal naso il faccione sorridente di Satchmo 2 che mi porge con le mani unite qualcosa, è una hotate, capasanta scottata, anch’essa di Hokkaido, avvolta in una copertina di nori. Pare che questo arcipelago sia stato benedetto dall’Alto e che tutto ciò che sorge dai suoi mari e dalla sua terra sia speciale, dolce, in genere. Più dolce delle nostre, più dolce delle pur squisite hotate canadesi. Ecco perché i giapponesi sono così fieri di ciò che viene dalla loro terra e dal loro mare, perché se ne fanno vanto e disprezzano pregiudizialmente, pur poi riconoscendo quel che vale, ciò che viene da fuori. Un po’ come noi italiani.
Assorto in queste considerazioni ed avvolto dalla felpata musica jazz, mi accorgo che Satchmo 3, dall’angolo opposto, mi fissa con sguardo libidinoso, e sobbalzo. Un lungo sorso di shochu e Satchmo senior dispone sul piatto 2 fette spesse di toro (13) veramente grasso, sulle quali appoggio due grumi di wasabi. Prendo tempo e mi si sciolgono in bocca una ad una con grande piacere del palato. Poi arriva Satchmo 3, con un impercetttibile tentativo di ancheggiamento, e mi offre una terrina apparentemente gelatinosa. Mi dice in un inglese stentatissimo, per cui devo chiederle di ripetere più volte, che si tratta di milza di pesce con uovo. In realtà lo scopro come un archeologo scavando nella spessa gelatina solida. La milza bianca del pesce, non so quale, è fusa con l’albume d’uovo e circonda il tuorlo semisodo. Complesso, ma eccezionalmente buono. Kanizawa padre poi mi serve tre nigiri sushi di fila, nessuno dei quali pare essere ciò che è, tanto che devo chiedergli di che si tratta. “Maguro!” (14) mi dice per tre volte consecutive. Ed io, incredulo, per tre volte gli chiedo se devo passarlo nello shoyu e nel wasabi, e per tre volte mi dice di no, di mangiarli così. Di lui mi fido ormai come di un padre. Il primo ha un aspetto scurito, appassito, niente a che vedere con quel bel colore rosso vivo che mi aspettavo. Con sospetto lo ingerisco e scopro una sensazione sconosciuta, una consistenza vellutata ed un sapore inatteso. È stato marinato nello shoyu e nel mirin (15) e forse anche nel sakè. Il secondo ha avuto un trattamento analogo ma ha un sapore diverso, anch’esso ottimo. Il terzo ha la superficie segnata da leggere righe squadrate come di griglia ed un sapore di cenere, mentre l’interno è ancora crudo. Finalmente incrocio due parole con la coppia più vicina, che fino ad allora avevo ignorato, e mi dicono essere entrambi dipendenti della compagnia petrolifera BP. Sono di Tokyo e mi chiedono se abito a Tokyo o se sia un turista. Gli spiego che sono lì per affari e che sono un importatore di prodotti per ristoranti giapponesi in Italia. Mi chiedono come abbia scoperto questo posto poco conosciuto, immeritatamente, senza forchette Michelin che per loro è uno dei migliori sushi bar di Tokyo. Gli spiego che mi ci ha portato l’anno scorso uno dei nostri fornitori di Tokyo. Mi giro verso il piatto e trovo un Kuruma ebi(16) con il dorso inspiegabilmente lucido su un nigiri (17), che dice Satchmo, devo consumare così com’è senza aggiungere altro. Obbedisco, e godo.

È ora di andare, chiedo il conto, e pago 140 euro, che, per quanto mi sembrino tantissimi per il valore di mercato di ciò che ho consumato, non riesco a rimpiangere. Saluto i Satchmos sorridenti in linea, con lo sguardo, sempre più libidinoso della 3, ed infilo di seguito cappotto ed ascensore. Una fermata di metro e mi trovo a Shibuya avvolto dalle luci, dai rumori e dalle immagini degli schermi giganti sui grattacieli. Accendo un sigaro toscano e mi avvio felice.

 

Note:

1 – Shochu – Distillato di riso, orzo, patate dolci, foglie di shiso (specie di basilico molto aromatico), o altro di circa 20-25 gradi alcolici, che si beve con ghiaccio o diluito con acqua. Attualmente molto popolare in Giappone.

2 – fettine di zenzero marinato utilizzate per “pulire il palato” fra un sushi o sashimi e l’altro.

3 – radice di rafano giapponese che, grattugiato, viene diluito nella salsa di soia o appoggiato sul pesce crudo.

4 – salsa di soia miscelata a yuzu, una specie di limone giapponese molto aromatico. Viene utilizzato in particolare con pesce bianco crudo.

5-6 – sono due specie di ricciola orientale. Le distingue il secondo nome scientifico, poiché entrambe di primo fanno “Seriola”.

7 – Shoyu significa in giapponese “salsa di soia”.

8 – Maki, tipo di sushi con l’alga intorno al riso ed al centro uno o più ingredienti di pesce crudo e vegetali.

9 – Iwashi – sardinella

10 – Nori – sfoglia di alga arrostita usata per i sushi rolls , temaki (a cono), ecc.

11 – Tsuyu – base per zuppa a base di salsa di soia, katsuobushi (fettine di tonnetto secco-affumicato), ed altri ingredienti.

12 – tipo di sushi con letto di riso avvolto da sfoglia di alga nori che viene riempito con ikura (uova di salmone), tobiko (uova di pesce volante), uni (riccio di mare), pezzetti di tonno piccante, o altro.

13 – Toro – ventresca di tonno crudo.

14 – Maguro – filetto di tonno.

15 – Mirin – vino di riso dolce usato per marinare o condire.

16 – Kuruma ebi – ebi sono i gamberi in giapponese, Kuruma è una specie selvaggia e pregiata.

17 – Nigiri , è il sushi più conosciuto, un letto di riso con sopra una fetta di pesce crudo.

Bernard Jouno

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