Andrea Peverelli

I versi ipermetri di Andrea Peverelli sono macchine testuali zeppe di tutte le merci del mercato globale, dal trash al kitsch, dai relitti lirici della poesia classica agli avanzi di magazzino. Lettere e Discorsi sono l’indizio dell’urgenza di comunicare qualcosa di definitivo o duraturo (“Il discorso di Simeone, pendolare Siriano” e “Lettera d’oltreoceano”) attraverso i generi monumentali dell’alta tradizione letteraria, eppure già dai primi versi scatta lo straniamento (di matrice sanguinettiana da Palus Putredinis). Il messaggio da recapitare al mittente si disperde nell’iperbole di stralunati affastellamenti di immagini e percezioni, complice il poeta stesso che dissacra, disorienta, camuffa: anche se a dire il vero ti ho scritto soltanto per dirti /di svegliarmi verso le 10 di domani mattina.

Letizia Leone

 

 

 

Il discorso di Simeone, pendolare siriano

Non è il ritiro
lo stretto allungarsi nei pizzi bianchi
appena smangiucchiati da una nuova idea di arredamento
mentre due metri quadrati di parquet frassino
non fanno altro che comporre un funerale
Lo there do I see
stralci e listelli più o meno chiari
ben composti sulla pira dei libri
double_yellow_line_by_art_brandonhubschman-d45nqo9– Propedeutica al latino universitario
Propedeutica al rollarsi le canne a tempo di dattili –
ma non è ritirarsi
quello sperarsi stilita
sulle rastremature dei lenzuoli
quando al fato si vorrebbe rispondere
che no la linea gialla non la supero: (sta’ zitto una buona volta)
si morrebbe di dolce abbracciare la luce stupita
di vedermi avanti a sé,
la rumorosa voglia di mondo a braccia aperte

 

Lettera d’oltreoceano

In data 12 Dicembre secondo il calendario gregoriano
si celebra con un canto per 3 iguane contrappunto verde cauda contra caudam l’incendio del serpente che
per riforma cosmogonica tagliò il cielo a mandarancio zampadiguana
al suo artiglio piantato nella terra fresca di giornata dice salute

La punta del Tehuantepec starnuta dolcemente nel mare come il tuo naso irritato scarlatto
dolcemente mulatto
dodecanneso mulatto
dodici nei sotto le tue ciglia di schiuma
che sbattono contro
che sbattono
che contro-sbattono le mie ciglia di roccia lavica
il mio occhio buono cratere conca di sguardi che si staglia vulcanico
in mezzo a un mare anoressico si tiene su con le bretelle
intrecciato di canapa alla radice delle tue tempie
con un machete ti si fa strada il pensiero che non è poi tanto brutto vivere rampicante abbarbicato a una calma piatta accoccolata sul cerchio dei nervi acciottolata sulla strada di ciottoli e mais
ieri c’era ancora la ford piumata che passa tutte le notti al portone chiedendo se è rincasato il mio primo figlio
penso sia in leasing per conto di un grasso milionario americano con la barba bianca fino all’atrio destro del cuore
ho fatto come mi hai detto l’ho scacciata malamente tirandole contro il bel parafango metallizzato una crema di coleotteri rossi
ho tirato dolcemente le mani delle liane che tramontano dietro lo stipite
le ho prese tra le mie
e nella poca luce in caduta libera ho ballato più forte dei dentidalatte

i balli caraibici sono per europei
con occhi di cemento
e piazzeaffari calve sulla testa

vorrei tanto essere arcobaleno come il Padre
scendere giù ad angoli retti dal tempio squarciando tutti i veli dello scottex celeste

in questo momento ho freddo indosso la mia felpa dei Metallica in pelo d’alpaca
dentro i tasconi si sente ancora l’eco del tuo profumo
dentro i tasconi come conchiglie le tue carezze atlantiche saline ammaestravano formiche a fare idoli di mais fin da quando l’uomo marciva nodoso sotto un piscio di resina
le tue mani sante e delicate a macinare sotto la luna le mura e le porte in cotto ad annodare i gradoni del tuo patio con lo sputo l’ocra gocciolante delle liane
mano nella mano tu io le liane le dita dei morti sotto le liane le bave di vento di tempesta da Est sempre da est viene la tempesta

l’accenno di brezza ora slaccia stringhe e nodi alla gola
ci adagiamo al sonno erotomaniaco di quel santo importato ossessivo avvoltoio attorno allo sguardo ammiccante della vela con la croce all’orizzonte
ma ti devo confessare la santa dirimpettaia che ogni giorno alle 3 grida al cielo si sloga i muscoli sui fili sulle liane della biancheria stendendo i quattro panni la santa indiaispanica sognata spettinata che mi guarda insistente da sotto le ciglia
non ci ho mai combinato nulla
ma confesso ho peccato
qualche volta
cadendo mango crudo nel punto dove la sua bocca mi spellava mi assaporava lenta e umida
lasciando a nudo
un’ora di veglia acida
allo stomaco attorcigliato con le proverbiali farfalle
ora veloce verso la buca delle lettere corro fuggo dalla tua terribile ira che sfracella rocce su neonati che scardina i tetti del mondo che vomita le guance con tutti i denti e le radici nascoste il sangue vivo sotto lo smalto rosso che ti piace tanto
corri
il giaguaro dietro noi spara a vista
corre incalzando il vento sopra le foreste i concerti le onde
sussulta ha conati il golfo rigurgita sullla battigia le mie scuse di terra
e l’ossequioso reflusso delle ford focus
lo spicchio d’arancia che arde di donne velate e seducenti s’infiamma scarlatto nel centro
io intrappolato moscerino fra una zuccherosa sinfonia di bucce
e il tuo sguardo triste ingannato da bestia ferita

anche se a dire il vero ti ho scritto soltanto per dirti
di svegliarmi verso le 10 di domani mattina

 

 

 

Sopra la testa un soffritto di vetro
tiriamo le tende tiriamo le coperte del soffitto sopra gli sguardi per proteggerci dall’odore penetrante
e ci ammaliamo di allergie all’olio ai colori ai quadri dipinti
starnuti ciano starnuti rossi
Rossini delle 22 e 15 suonami un paravento di sputi
voglio umettarci il sorriso alla tabacchiera stradale che accoglierà la tempesta
andrò in mezzo alla tempesta mi farò sputare addosso tabacchi come fossi un tiroassegno
in mano una lettera una voglia slavata di ciliegia una coda di cane che spezza il silenzio
che spazza un balcone di baci e gerani
e ulula al cielo sboccato
il notturno canna lunga spara la sua miglior cartuccia si spranga la falce di Aurora calante all’antipanico la sfanga allab3b199e4e55666608b2f02fef2cf4bc9 fine con una corsa giù per la scala in fretta minore guaisce rapisce la cagna dell’uscio accanto per piangere meglio al suo posto ma non sortisce effetti a quell’ora chi vuoi che si incrini che s’alzi fumoso dal letto di pixel sparando sul muro maestro di casa all’impazzata il suo miglior repertorio di miagolii e salsadipomodoro
la parola di Dio s’infila come una briciola tra il canino destro e Canaan
la parola di Dio ti s’infila come una supposta di glicerina butta fuori tutto figliolo tra la narice e il Giordano
i venti che incendiano le palme si sono calmati
ora c’è un solo tronco di lingua a spezzare il buio dell’ennesima luna ultravioletta ci si limona tutti assieme tutti allegri tutti gialli scorbutici ruvidi barba contro barba
la pelle tesa fra la corda sul mio tempietto personale notturno di sogni erotici&santi fra le guardie del tuo tempio erotico&santo fra le migrazioni nomadi dei brufoli che vengono dal deserto frontale a picchiare alla tua porta e tu diventi acneico rantoloso di adolescenza
la pelle tesa su cui tamburelli le tue lunghissime ciglia e la seccano i venti caldi che incendiano le palme le enormi foglie frastagliate come pelle secca il Giordano è ancora troppo lontano per idratazioni chimiche e formule dermatologicamente testate noci e muschio bianco a schiumare il bel letto del fiume a schiumare di morte rabbioso come un cane appena dietro la collina che avrebbe rivelato la tua perfetta luminosa portata in metri cubi
la pelle tesa la pelle è ancora tesa l’attesa della pelle è una pasta troppo salata è una chiave di violino sulla colatura di alici sulla filata in grande stile di ogni forma di vita batterica dal portone di casa nella pentola a bollore l’avanzata ritmica in battere e in levare dei deserti fin dentro le spaccature bollenti della pelle
e la rastrellatura desertificatrice dei parquet solari sul tuo solaio batte il dentedileone tutto il giorno dalla colazione alla cena e allora dobbiamo portare in spalla ogni tessitura storta di listelli e legni abbracciati al vento secco delle tue labbra
e avevi labbroni da nero eri africana nei modi gentili eri sfacciata anche quando mi dicevi di dormire avvoltolato abbandonato alle tue tasche senza fondo piene di tenerezza e briciole anche quando mi dicevi di fottermi tutti i figuranti dei miei sogni così presto dimenticati nel volto e nei modi indefinibili tutte le figure perché in verità eri tu tutti i cavilli dei tappeti marocchini e i capelli biondissimi delle tappezzerie i momenti biondissimi sfumati dal primo mattino alla cartina fumante e bionda che abbagliava ogni passante
e tutti si chiedevano come facessimo ad amarci a quel modo io appoggiato alla ringhiera che sbava sulle sabbie e tu in costante vorticare granello tra il culo basso delle altre studentesse e il sole alto di mezzogiorno
andiamo a dormire

Attraversare la terra abitare la terra fumare la terra
ci si passa con due dita le vanghe, due buone boccate di terra sulle rughe di fianco alla bocca
ci si svanga assieme a disossare strinare i negozi locali
a intervistare la tua nudità ci vado con mani di pollo
e una scusa di riserva
Per farmi perdonare ti offro una frittura di sonni scrollata dalla tappezzeria
che uno scarafaggio coltivava amorevole a mani di vernice e umido
strette quotidianamente al tavolato delle trattative
con la mano pesticida
lui disperato
E noi incuranti gli camminavamo sopra i suoi affetti sopra le imprese edili
camminavamo mano nella mano come si fa di solito quando ci si ricorda del crine di cavallo
che stirava un suono sotto al rullo compressore dell’autunno
alzavamo sabbia ad ogni passo insieme agli operai maghrebini
il tuo incedere era una classe all’ultima ora di scuola
avevi fretta e doppie punte
avevi scarpe slacciate e quindici beduini in tasca
ché a furia di caffè e poesie mi hai perso il sorriso per un tic nervoso
te lo ingollavi di caverna a scatti giù nella gola e ti ritornava su a ritmo con gli inciampi
Tintinnavamo cristallini come sabbia&fuoco eterno sulla sabbie eterne come se fosse una mattina qualunque
ci sfoggiavamo contro la mattina come fosse il nostro servizio migliore di cristalleria
ma le sabbie erano dei padri
erano loro le sabbie
camminavamo sui funerali di tutti i secoli e tu ti volevi fermare a ogni buca perché eri curiosa a ogni fossa incavata d’insonnia e scale antincendio tre volte ingoierai il mio nome come i versi di qualsiasi poeta che mangia catrame e fanta sgasa
e d’estintore mi ferisci ancora all’ultimo piano in fiamme
danzavi anche allora con le mani tra i crani d’agnelli in fiamme
friggevi teste e cuori e pc portatili e fonetiche ebraiche tutti nella tua fossa più profonda nello stomaco della tua borsa nera per l’università
e io sul fondo salato con ali di colla e sonno e vinavil sulle nocche per ricordarmi di ognuno dei pugni che ho tirato al vento quando mi annoiavo
Un uomo unto sa di essere il grammo d’ingrasso per la vecchia terra tegamino di burro chiarificato
un moto perpetuo lo anima ai bordi dell’unghia con cui si disarma l’orecchio al canto delle friggitorie di strada
ritorna a Sottoripa astro e fossa comune di luce
prima che torni mia moglie
ritorna
gli attici sono in fiore di nuovo
hanno fiori di zucca e crisantemi
la mia lingua davanti a te è olio esausto è fondo bruciato è terra riarsa
Ma se te la dono ti basterà per fartene
un ultimo spuntino
stasera

      La scampagnata di auto in fuga nelle rimesse d’acquedotti ci racconta che i contadini modenesi antichi in carestia mangiavano Dio senza saperlo
e non venivano salvati perché prima di cena e allora andavano mortificati nel tramare d’infissi l’aria preserale ingordo tremare di ossa che incorniciavano le loro deperite esistenze
dottrina santa del Purgatorio dannati salvabili contorti sui pavé schiacciati dalle mareggiate padane e allora come non essere panettieri di amori stantii impastati all’umido prestatoci dai sottopassi ché piegando l’hinterland alle proprie esigenze da forno ci si sente piccole gru meccaniche
tentiamo passi zoppicando sul bordo fra una centrifuga meridiana e la maggese tentiamo a tagli una diminuzione di vitamine il nostro guardare imbambolato un Old Wild West di troppo ma il suo calore economico ti si adatta come una giacca
perché il nostro occhieggiare sapeva di fritto e tentarono di servircelo rimandandocelo indietro al doppio del prezzo ma era stranamente alienato lo struscio diurno di foschie appese alle cameriere quasi appendiabiti
oppure fu graduale una lambruscata incosciente la segmentazione della routine produceva aloni tattili sulla nostra domenica escoriata di troppe mani strette
ed è di troppo anche una parola che dalla koinè lombardoemiliana si alzi come odori freschi dalla buona campagna di cementacciaio tendendo la mano a un’àncora di spuma e albicocca
è il peso delle strutture che ci aggrava la scoliosi ventennale – inguaribile mio piegarsi ad ogni accenno di tuono che nel pattinare tuo superficiale interrompe il passo abbastanza per farti scoprire la tenerezza dei ginocchi rivolti all’àncora che dal cielo ti sfila sui capelli come uno shampoo all’albicocca
e noi coperti di mandorle e intimismi ce ne andiamo nello sbuffo di campo che ci rimane opposto ruminando i passi ribaltati a capriola ridendoci addosso tutta l’erba umida del temporale al tramonto
e siamo stanchi ma veri
ruminando ruminando ruminando ruminando
il frecciarossa ci coglie ruminando

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