Amata voce

La fatica di uscire dall’indistinto

nicoletta-nuzzo-luglio-2014“Che sarà di noi/ che siamo scappati dal guscio”.
Inizia con questi primi versi la raccolta di poesie di Nicoletta Nuzzo che in queste sessantaquattro liriche tratteggia la condizione del poeta tessendo un filo di radici e di connessioni entro voci poetiche di sorellanza. “Che sarà di noi/ che siamo scappati dal guscio/ per diventare vivi”. E che sarà di noi parole uscite dal respiro per diventare carne? La poeta affronta il processo di scrittura facendosi voce della sua stessa voce e descrive il suo prendere forma come una caduta, uno stato d’essere doloroso, di rigetto, che passa da una condizione di presunta grazia a un rifiuto protettivo e schivo che vorrebbe trattenere nel guscio, lasciare “in attesa in un sonno dentro al mio gomito”. Il principio è “essere gettata fuori dal Cielo,/ stare come un sonoro che geme.” Un volo inaspettato che sorprende, che non lascia tempo: “Quello che mi accade è tanto veloce/ che io devo inseguirlo/ ma arrivo tardi…”
Mai nessuno ha saputo descrivere con così tanta precisione, con così minuta descrizione e profonda bellezza la vacuità del cogliersi, dell’ accalappiare le sensazioni, le parole, le immagini del proprio essere altro per poi racchiudersi, accucciarsi, rinchiudersi nella meditazione, nella solitudine. “Vivo in una casa non casa/ ho l’anima casta e macchiata di chi è predata/ il manto animale della solitudine”.
Questa lirica (Solitudine), tra le più belle che ho mai letto sulla condizione del poeta racchiude l’essenza di questo percorso a due voci. “Non chiedere a me come devi stare/ a me che raccolgo grammi di energia/ per portarmi nel giorno”. Nicoletta parla con questo suo  dáimon (nella cultura religiosa e nella filosofia greca, un essere che si pone a metà strada fra ciò che è divino e ciò che è umano, con la funzione di intermediare tra queste due dimensioni) che la spinge a seguirsi, a seguire l’amata voce, si confronta e si sdoppia e si fa veicolo di qualcosa più grande di lei. “Quando la vita diventa troppo/ ho sempre paura di non bastare io”.
Il poeta è un mezzo che si fa veicolo di altre voci, non solo sue, si fa transito di memorie di cui non è consapevole  ma lo riguardano. E questa condizione scava i pori della pelle come tempesta uscita dal bicchiere  che è rumore di vento delle vene, condizione che si fa scissione con cui guardarsi dentro. “Non c’è modo di separarsi, due vite nello stesso corpo.”
Solo qui interviene il maschile a scindere la forma, unica dedica a uno scrittore di sesso opposto, Franz Kafka, che dà voce a questa condizione necessaria perché le parole prendano vita:  Che tu sia per me il coltello, un coltello, una lama sacra con cui frugare la radice che penetra nell’oscurità.
Lei, la poesia, Amata Voce, accarezzerà solo l’ombra e il poeta scenderà a patti con lei senza rispettarli perché egli non è voce univoca. Il poeta muta e muta anche la parola laddove  però concretizza strascichi nel corpo e nell’esistenza, perché la voce vive quando chiede vita.
La parola è flusso che transita, incontenibile, dopo che il vuoto s’è fatto slabbro non ci si può più racchiudere. Ed è così che ha inizio lo svelamento della parola, la messa in forma, e il conseguente riconoscimento di un Doppelgänger che chiede di esistere e di essere amato. Il Doppelgänger studiato da Hillman, generato dalla paura, è presenza che non può cessare, esso indica il processo di bilocazione cognitiva che consente al poeta, allo scrittore di entrare e uscire dalla propria storia di vita. È un procedimento di estrapolazione della poesia ma della narrazione in generale che  comporta una presa di distanza che si attua nel leggere la propria storia con occhi diversi, con lo sguardo altrui, rappresentato qui da Amata Voce. Una voce che non sembra appartenere al legittimo autore e che offre un decentramento delle prospettive ermeneutiche, laddove ci si prende cura direttamente di quell’essere altro, e del racconto diretto e indiretto (veicolato qui dalle altre voci femminili e nei precedenti libri della Nuzzo dalla figura felina) che riguardano il percorso di costruzione di sé, del prendersi cura, del darsi forma.
Eppure questo processo, in qualche modo, genera una scissione dolorosa dell’essere che ci allontana da tutto quello che siamo stati, da tutto ciò che il poeta conosce e ha imparato fino a quel momento:

“Non riesco a perdonare questo mio mancare l’essere  scrive Nicoletta, quando il nulla mi prende sorelle/ lasciate che stia qui.

È in questo “qui”, in questa condizione esistenziale di scissione che si genera quella rabbia che si fa forza propulsiva in una esplosione di ricongiunzione necessaria al proprio essere. Un sé che si sente apolide e allo stesso tempo appartenente a una condizione indefinibile, sottile e precaria.
“Se non fossi l’uccellino che sono/ poggiato di pena e oblio su zampe filiformi/ ti griderei in faccia la mia rabbia/ con un solo nome io io io”.
Questo mare esistenziale, sconfinato e ignoto che genera smarrimento lascia la poeta in una condizione esausta, di confusione, in cui manca il respiro, manca il verbo che deve ricucire i margini di questa ferita, di questa profonda scissione matrice e generatrice di parola. “Sono in apnea/ adesso devo riunire i miei spicchi/ e sorgere piena come luna sopra questo mare.”
L’attesa è utile strumento di cura che sul far della sera toglie forza anche al dolore per trovare gli occhi di questo nulla. La poesia adesso comincia  a farsi risalita, anelito al divino: “Questa vastità senza ali e senza radici/mi inghiotte/ vorrei un canto che piangesse me/che pregasse per me.”
E anche il tempo muta forma e la circolarità dell’essere, del tutto, riporta la voce in accordo con il poeta, esso stesso orologio vivente, mutabile e immutabile al medesimo tempo. È la poesia come albero, imitazione della natura, in cui la relazione tra poeta e poesia diventa viva, organica, materica, il logos da seme lentamente mette radici e diventa albero-poeta. Questa metafora così meravigliosamente espressa da Margherita Guidacci  nella sua conferenza tenuta nel 1987 al Convegno Nazionale di Bari sulla poesia femminile, riporta la poeta e, in questo caso Nicoletta Nuzzo, a una ricongiunzione al semplice scorrere delle cose, al flusso poetico. “Ascolta mio tempo, mio albero, mia poesia/ fa’ che sia io il verde illuminato dopo questa pioggia”.amata-voce
In questa seconda parte della raccolta ricorre ancora il dolore, l’attesa e il rinchiudersi nel gomito, in quell’angolo di oscura quiete, nel risuonare di vuoto e silenzio adorabile ma illuminato adesso di uno spicchio di luce, in mezza ombra, come qualcosa di sacro entro un tempio che è conchiglia per la parola-perla: “tieni al sicuro il mio niente/non distogliere lo sguardo/ mentre m’incurvo nel guscio,/ assaggia il sale dell’appena nato.”
come pianta grassa che cresce in silenzio e diventa forma  così la poesia, Amata Voce,  riprende la cura e la poeta è di nuovo investita del soffio, dell’informe che preme sulle nostre vite, di un destino comune a molte altre donne. Tanti i richiami al femminile da Virginia Woolf in Non è solo il mio destino, alla stanza antica e sempre nuova di Emily Dickinson, all’oscuro misticismo di Alda Merini e Etty Hillesum che sono invocate e cucite alla voce narrante con materno accudimento. “E se l’oscuro del nascere è cavità di parola/ per questo filo da non spezzare di donna in donna/ madre ti chiedo di invocare per tutti altro tempo altra quiete.”
La quiete è ritorno, cibo che si affaccia sugli occhi, luogo senza nome, quello in cui la poeta scende, una stanza che ha solo intravisto, nella fatica di uscire dall’indistinto (Rito) ma che la mette in condizione, attraverso una luce mai piena, di guardarsi dritto negli occhi e, metaforicamente, dentro, di fissarsi in questa invocazione della parola: la poesia.
“Ancora posso sognare un sapere tremolante/ e minuscolo ma tutto mio/che tengo protetto in un nido segreto,/ è da questo posto intrigato che parte il filo/ con cui non mi perderò nel morire,/ è su questa piccola corona di rami e pagliuzze/ che si infrange la fitta del vuoto.”

Valentina Meloni

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