Alcune riflessioni sulla micro-editoria

guy-14Ricevo con vivo piacere l’invito a poter intervenire qui, su questo spazio, in merito all’universo sterminato riguardante le attività della micro-editoria nella nostra realtà quotidiana, sul quale molto ci sarebbe da dire per affrontare questioni anche molto differenti e distanti tra di loro ma che debbono essere tenute da conto quando ci si approssima a considerare la micro-editoria come fenomeno in sé stesso. Direi che è necessario partire da quella che può sembrare una semplificazione ma che può servire a chiarire alcune cose. In Italia (mi limiterò a parlare del nostro Paese che è ciò che più ci interessa, anche perché non dispongo di conoscenze altrettanto specifiche in merito ad altri stati europei o extra-europei) l’editoria è in mano a tre fasce diversificate di editori: 1) i grandi editori, quelli che si contraddistinguono con dei veri e propri marchi e che sono di dominio pubblico (per intenderci ciascuno di noi avrà a casa propria almeno un testo pubblicato da queste grandi catene editoriali, senza dover far nomi che contribuirebbero ad ulteriore promozione che qui non intendo fare), 2) i marchi medi ovverosia quelle compagini editoriali che, pur avendo alle spalle una attività editoriale seria e duratura, documentata e stimata ed organizzati in varie collane a garantire la possibilità variegata delle espressioni, non hanno ancora (e forse non ce l’avranno mai) la potenza e l’impronta inscalfibile dei primi e nemmanco possono dirsi privi di peso sul panorama culturale; 3) la micro-editoria: si tratta, e lo si vedrà meglio nel corso di questo intervento, di quella realtà dilagante, propulsivamente diffusa con una crescita che potremmo definire algoritmica, quasi inarrestabile che contempla al suo interno la massa multiforme e difficilmente mappabile delle attività editoriali svolte in piccolo (come il nome indica) cioè nate, ad esempio, da centri di cultura, associazioni, onlus, e tutte quelle compagini associative che non nascono primariamente con lo scopo di fare editoria (cioè pubblicare libri) ma che lo possono fare perché previsto dai rispettivi statuti. Non solo: all’interno della micro-editoria si contemplano anche vere e proprie case editrici che, pur partendo dal poco (la mancanza di un vero e proprio staff da casa editoriale che cura ogni ambito del progetto librario) e con pochi mezzi, non potendo contare su campagne di sponsorizzazione sui media e dunque di una vetrina che gli sarebbe fondamentale, operano autonomamente e con meno mezzi. Il fatto di operare nelle ristrettezze, si badi bene, non significa assolutamente che il prodotto ultimo, finito, sia di qualità inferiore rispetto a quello che una casa editrice medio-grande garantirebbe, ma sta a significare un diverso approccio di gestione del processo di sviluppo dell’opera stessa.
Un capitolo a parte dalla micro-editoria credo che sia quello inerente al self-publishing sul quale, pure, ci sarebbe molto da dire; un procedimento di creazione dell’opera in cui l’autore diventa anche correttore delle sue bozze, prefatore (se vuole, o scegliere di farlo fare al vicino di casa) e addirittura editore. Vi sono infatti numerosi portali che permettono di dare all’autore convintissimo della validità del suo testo (magari zeppo di discordanze, errori grammaticali e grafici) la possibilità di stamparlo in pochi semplici clic dove i tutorial sono di fondamentale importanza per limitare eventuali altre pecche relative all’impaginazione o alla centratura dell’immagine di cover (per esempio) che spesso, vuoi per la fretta o per l’inesperienza, si fanno. Il fenomeno è sì conosciuto, apprezzato e seguito che una grandissima fetta dei volumi che troviamo sulle vetrine online (dato che in questi casi è l’unico mezzo di vendita) provengono proprio da questi siti fai-da-te.Guy-Laramee
Per non divagare, però, e riportare l’attenzione alla differenziazione schematica sulle tre tipologie di editori è bene anche sottolineare, al di là del fattore meramente economico e dunque il livello di benessere che permette l’investimento su valide e mirate operazioni di marketing per la promozione e diffusione dell’opera, una cosa che è d’importanza capitale. L’editoria nasce come attività commerciale, dunque con un fine volto al guadagno anche se agli albori all’interno l’obiettivo principale era rivestito dalla selezione degli autori e dei testi volta a una scrematura iniziale fondamentale: si pubblicava ciò che, secondo una pattuglia di critici e commentatori interni o vicini alla casa editrice, aveva effettivamente un valore intrinseco non tanto commerciale (improntato dunque a fare del libro un successo o come si direbbe all’inglese un best-seller) ma culturale e nella fattispecie letterario. La casa editrice, dunque, era il mezzo attraverso cui un testo ed un autore ricevevano il primo, importantissimo, consenso alla propria attività tanto che l’editore si assumeva l’onere di pubblicare il volume ben sapendo che, in base ai gusti dell’epoca, alle tendenze, alle tematiche d’interesse e tanto altro, quel testo avrebbe avuto un buon esito e dunque avrebbe portato al successo dell’autore, sia personale (la fama) che materiale (il guadagno) e di riflesso dell’editore stesso che non era un mero stampatore ma un garante giustamente severo della qualità dei manoscritti ricevuti.
Da decenni ormai non è più così e il fine merceologico ha soppiantato quello votato all’individuazione del qualitativamente proponibile tanto che anche i grandi marchi propongono e riempiono le loro casse con la pubblicazione di libri insulsi, tecnicamente non riusciti, scadenti che più che puntare a un messaggio testuale puntano a seguire o a rimarcare un trend, il fascino egoico del momento (la diva della tv, il calciatore, la biografia di una noiosa presentatrice pomeridiana, etc.). Se questo ha portato a una maggiore disponibilità di generi e sotto generi, d’altro canto ed in linea con quanto i teorici del postmodernismo affermano, ha condotto all’impossibilità di attribuzione di un determinato genere ai nuovi testi (ma questo è tutt’altro discorso). Solo per dire che dall’iper-sofisticata lettura, analisi e lavoro braccio-a-braccio tra autore ed editore (il rapporto che si instaurava e che sussisteva era importantissimo e di norma durava per tutta la carriera dell’autore) fioriva l’opera di qualità, degna della diffusione, portatrice di una dimensione culturale-letteraria, priva di ridondanze massmediatiche, invettive improbabili e rincorse impetuose al “basta che se ne parli”. Ciò ha riguardato le grandi case editrici che, oltre a far cassa su queste pubblicazioni para-letterarie o per essere più cattivi di vero e proprio trash, si mantengono in vita per lo più grazie alle ristampe, alle ri-edizioni e quant’altro dei classici intramontabili e di quelli del secolo più recente i cui diritti si sono accaparrati con modalità che non spetta a noi umani venire a conoscenza. Le case editrici di medie dimensioni non pubblicano classici a meno che non vi siano collane dedicate proprio a questo e frequentemente destinano particolare attenzione nei confronti di opere misconosciute di autore classici che vengono proposte in traduzione e, tecnicamente, “riscoperte”.
images (1)Se i grandi marchi editoriali finiscono per rappresentare una sorta di bancomat con l’infamante colpa di essersi venduti al Dio Quattrino e stampare ciò che è interessante solo perché vendibile in grande quantità e in aggiunta una schiera limitatissima di autori che buttano fuori un libro ogni due o tre anni, tutta l’attività autoriale restante, ossia quella fatta da docenti, scrittori, critici, autori esordienti più o meno promettenti, poeti, drammaturgi, novellieri, prosatori e quant’altro, si riversa sulle altre due possibilità: la medio-editoria e la micro-editoria con un’opzione di scelta tra le due che spesso è dettata dalle mere disponibilità economiche dell’autore.  La medio-editoria, da parte sua, che può vantare ancora di un nome (di un prestigio mi pare troppo) e che è conosciuta perché fa un lavoro di qualità e provvede a una seria distribuzione sul territorio, può essere la scelta di chi, oltre a poterselo permettere, punta senz’altro a una velleità conoscitiva da parte dei più.
I micro-editori in pratica fanno ciò che fanno i medio-editori ma, come si è già detto, con possibilità e disponibilità minori, maggiormente controllate, e di converso in genere propongono all’autore condizioni economiche che, da contratto, sembrano maggiormente fattibili e dunque cavalcabili.
Esistono chiaramente editori che non provvedono a richiedere un contributo di spesa per la pubblicazione qualora l’opera venga ritenuta meritoria anche se spesso (ne ho avuto esperienza in almeno due occasioni) si rivelano specchietti per le allodole ed i soldi che non chiedono per la pubblicazione del volume in realtà li chiedono sotto forma di altre voci che all’esordiente sembreranno alquanto criptiche ma che, per non farsi sfuggire il sogno della pubblicazione, accetterà scoprendo poi l’inganno, se così può esser definito.
Mi rendo conto che è difficile poter parlare con esaustività dell’argomento perché presupporrebbe prendere in questione una serie di argomenti, pure importanti, che qui per la brevità che mi è richiesta, non mi consentono di aggiungere molto altro. Aggiungerò solamente che la mia opinione è positiva nei confronti del fenomeno della micro-editoria (mentre è molto più critica nei confronti del self-publishing o di fenomeni come il ghost-writer dei grandi marchi editoriali e ancora il mezzo digitale del libro o e-book, questioni queste che, pur diverse tra loro, interessano e profondamente l’editoria tutta) nella misura in cui essa riesca a mantenere un parametro distintivo dalla medio-grande editoria in fatto di selezione dei materiali cioè su una base contenutistica.
Scantonando il fatto, per altro ovvio, al quale si è già accennato che anche la micro-editoria è una attività commerciale, ne sostengo l’operato nei casi in cui all’interno esista uno staff organizzativo buono e coordinato nelle varie mansioni richieste (per intenderci l’editore non può firmare la prefazione come spesso accade!) in cui la specificità di ciascun lavoro sia osservata e difesa (il correttore di bozze e il grafico che elaborerà la copertina debbono corrispondere a due tipologie lavorative diverse e con esperienza nei rispettivi settori); in aggiunta a ciò è bene che vi sia al proprio interno un comitato o redazione che dia realmente lettura ai testi che arrivano e ne dia una motivazione finale all’autore: sia essa positiva o negativa e che il contratto venga inviato all’autore che propone l’opera laddove l’editore considera realmente significativa la pubblicazione di quel dato libro e l’inserzione in una delle sue collane.Carved-Book-Landscapes-by-Guy-Laramee-6
Credo che la micro-editoria, che è penalizzata per la scarsa possibilità di investire in campagne di promozione dell’opera e la lacunosità o assenza della distribuzione nelle librerie del territorio, possa fare negli anni a venire davvero la differenza rispetto ai grandi marchi editoriali che ricorrono i libri cash-maker di turno proprio facendo forza sulla professionalità di alcune figure che al suo interno lavorano e collaborano e, come ripetuto varie volte, impostando le collane su un procedimento qualitativo fatto da gente competente. Quelle piccole realtà che perseguono queste finalità quasi come un impegno morale a salvaguardia della buona cultura, meriterebbero molto di più per venire allo scoperto e ricevere maggior attenzione, ma forse ciò finirebbe per essere il loro stesso male perché poi il maggiore successo e l’ampiezza di presenza sul territorio finirebbero per dar alla testa ai rispettivi gestori che, abbagliati dal facile guadagno e da una brama sempre più imponente, si trasformerebbero nei detestabili e marchettari grandi editori.

Lorenzo Spurio

4 commenti

  1. Ottimo articolo, Lorenzo, che rivela l’odierna panoramica delle piccole e medie Case editrici soffocate da un precariato indicibile e dall’impossibilità di dare voce ad autori (anche ragguardevoli) ma ingessati da una mancanza di pubblicità e di battages editoriali. Invece che dare aiuti economici alle Grandi testate giornalistiche, lo stato italiano si dovrebbe preoccupare di alleggerire almeno il carico fiscale di questi volontari della carta stampata. Questa finalità (come tu affermi) si dovrebbe avvertire come richiamo morale alla diffusione della Cultura non agli Scoop giornalistici, al gossip o, peggio ancora, asserviti alla politica.
    Ninnj Di Stefano Busà

  2. Carissima Ninnj,
    ti ringrazio di cuore per aver letto con tanta attenzione, quella che sempre ti contraddistingue, il mio articolo e per il tuo intervento sul quale sono molto d’accordo.
    Ti abbraccio e a presto, Lorenzo Spurio

  3. Trovo giuste le tue affermazioni sulle possibilità di pubblicare un libro da grandi marche,solo perché sono leggeri o politicizzati. La nostra cultura è diventata contaminata e ci sta manipolando la mente dalla troppa fastidiosa pubblicità,togliendo il campo a temi di maggiore valore. Anche qui si verifica una specie di battaglia commerciale per il futile guadagno.
    Tutt’altro di quello che dovrebbe essere,che ci porta fuori dalla realtà quotidiana. Ce ne vorrebbero di interventi simili.
    Patrizia Pierandrei

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