il tredicesimo InVerso

inverso

 

 

Tra carmina, incanti e incantamenti

A proposito di lacci, legamenti o annodamenti il linguaggio della poesia è alle sue origini oratio ligata contrapposta ad un’oratio soluta,discorso sciolto non legato alle regole del verso. Fondamento ineludibile della poesia fu considerato per secoli il ligamen della metrica che includeva principi di ordine numerali, ritmici, musicali, formali. Poesia come forma chiusa atta a generare una magia del linguaggio.
Come spiegare il potere magico delle parole, quella sorta di turbamento fisico-sensistico generato dall’ascolto dei versi? Come non mettere in relazione il discorso della magia con quello della poesia, per esempio? Tutte e due agiscono per legamento, incantamento, rapimento emozionale. Ogni rito magico agisce sulle cose per “simpatia universale”, suo strumento primario è la parola del rito e genera un’azione profondamente legata al segno. Le analogie sono profonde se si pensa alla parola cantata del “carmen”, dell’incantesimo, alle formule incantatorie più arcaiche che utilizzano il forte potere suggestivo e ipnotico dei suoni linguistici e figure quali la ripetizione, l’allitterazione, la paronomasia o l’anafora calate spesso nell’oscurità ermetica del messaggio.
Parole antiche il cui significato si è perso nella notte dei tempi ma che agiscono per fascinazione, per contagio ritmico-musicale, per potenza evocativa e simbolica.
Gli stessi lacci, la stessa energia ignota che nei secoli attiva la poesia. Come quella di Cecco D’Ascoli nel poema l’Acerba, per esempio:

Anch’io te voio dir como nel foco
Fanno venir figure li piromanti
Chiamando scabro marmores e sinoco.
Li geomanti con li sicchi punti,
con l’ossa de li morti nigromanti,
ne l’aire l’idromanti son coniuncti.
Ciascun de quisti, ne la piena luna,
li spiriti chiamando con lor muse,
sanno el futuro per caso e per fortuna:
per strepiti de l’incantate palme,
per l’osso biforcato che se chiuse,
sanno el futuro queste damnate alme.
E tu a me: or qui me parli obscuro;
che vuoi tu dir de l’osso biforcato?
Chè de le palme qui saver non curo…

Acerba, libro IV, cap. III

Letizia Leone

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