Una gazza ladra attratta dagli oggetti che luccicano per portarli nel proprio fitto nido, così Chiharu Shiota ha recuperato migliaia di chiavi di ogni foggia, epoca, provenienza, per appenderle agli innumerevoli fili rossi dell’installazione “A key in the hand”, acclamata alla 56esima edizione della Biennale di Venezia.
Come una scrittrice, profonda conoscitrice dell’animo umano, che ordisce la propria trama per farne un Racconto, così l’artista giapponese naturalizzata in Germania tesse la sua e la nostra Storia.
Di chi sono le chiavi? Cosa aprono? Forse una porta, una cassetta di sicurezza, un giardino segreto: la chiave è il simbolo per eccellenza della custodia di quanto ci è più caro, di ciò che vogliamo proteggere, tramandare.
Riprendono forma le esperienze e il vissuto di quanti hanno posseduto quelle chiavi e hanno risposto all’invito dell’artista a fargliene dono. Persone assenti che qui presenziano con i loro ricordi, possiamo di fatto leggere l’opera come una materializzazione dell’assenza, la concretizzazione dell’astratto, un immenso quadro tridimensionale che si offre al flusso della nostra immaginazione.
Di fronte a questa cascata di ricordi che si riversano nelle due navi che come mani si tendono ad accoglierli, lo spettatore è assorbito in una potente esperienza di immedesimazione. L’artista ha ricostruito un mondo, fatto di legami, di intrecci, di fili che si intersecano e si fermano in un nodo; l’atto creativo è in fondo una performance (l’artista è stata allieva di Marina Abramovic) alla quale siamo invitati ad assistere ex post, come ad una pièce teatrale preparata e provata per mesi prima della première.
La Storia e la Vita si diffondono dalla pareti dell’ambiente, alle quali sono saldamente aggrappate, si appropriano dello spazio espositivo senza definirlo in maniera “statica”: l’opera si ramifica, si estende, potrebbe andare oltre e perpetuarsi all’infinito. I ricordi mettono radici, rosse in questo caso, come il sangue, linfa vitale.
Se l’opera rifiuta di essere chiusa nello spazio, così rigetta ogni ascrizione al tempo. Il tempo, nella sua accezione lineare, qui è interrotto, sospeso. Dobbiamo pensare ad una dimensione di tempo dilatato, interconnesso, e soprattutto stratificato, come un albero genealogico di cui facciamo tutti parte, non importa se protagonisti o spettatori, il tempo dell’opera ci appartiene e ci attraversa, ognuno col proprio carico di verità.
I bambini, la cui memoria è ancora una tela bianca, sono chiamati dall’artista a raccontare il proprio primo ricordo, e da questo incontro sono nate alcune video interviste che sono state proiettate nelle sale adiacenti dell’esposizione. I bambini ricoprono un ruolo essenziale nel progetto dell’artista, tutto incentrato sulla memoria, sono loro infatti ad essere incaricati di farsi custodi delle chiavi del passato, per utilizzarle, capirle, provarle, e quindi riconsegnarle ai posteri.
L’opera di Shiota, che ha incantato il pubblico in una sorta di messa mistica, è stata a più riprese definita dalla critica come ‘onirica’, qui vogliamo proporre un’altra ‘chiave’ di lettura e interpretarla come ‘medianica’, perché i fili dell’esistenza fanno esplodere la nostra immaginazione, interpellano l’inconscio, mettono in gioco il nostro vissuto come nel corso di una seduta psicanalitica.
Certo gli stessi fili potrebbero avvilupparci, imbrigliarci fino ad intrappolarci senza via di scampo. In questo senso l’opera potrebbe assumere per taluni una valenza oppressiva e claustrofobica, ma la rete intrecciata da Shiota è leggera, ariosa, sospesa. Non c’è intenzione di imprigionamento, della Storia qui si è spettatori e non vittime.
Possiamo quindi immergerci senza remore in questa dimensione poetica ed evocativa, attraversarla come funamboli alla ricerca della chiave che riconosceremo come nostra, quella che aprirà la porta del ricordo e dell’immedesimazione.
Chiharu Shiota ha costruito su questi principi cardine tutta la sua produzione artistica: già in altre opere è ricorsa ad oggetti ‘intimi’ come scarpe, valigie, strumenti musicali, vestiti delle bambole, tutti feticci del ricordo, veicoli di emozioni sepolte. Gli oggetti vengono sempre legati tra loro in fitte trame, per lo più di fili neri, perché questi permettono di ricreare la volta celeste, secondo l’autrice. Un cielo notturno, in cui le stelle –pur distanti tra loro anni luce– si offrono al nostro sguardo sullo stesso piano ottico ed emotivo.
Non è cosa di tutti i giorni poter visitare il nido della gazza ladra, osservare gli oggetti che ha meticolosamente raccolto e sistemato, assistere in un carico silenzio ad una rievocazione solenne che lascia scorgere universi noti e sconosciuti, relazioni semplici e complicate, possibilità sconfinate.
Una tragica domanda soggiace a tutto ciò: chi scioglierà la trama della tela? chi distruggerà il nido dell’artista? quand’è che il pettine dipanerà i nodi? La fine del nostro tempo.
Helmut Schilling
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