
Vedere s’apparenta al sentire, quanto a larghezza. È la più ampia forma verbale degli occhi, infatti, il vedere, più esteso del volgare sguardare, certo, che insisteva sull’intenzione d’amore, e più dell’attuale guardare, che indica un più intenso esercizio mentale. E comprende lettura, comprensione e ragione, che del vedere sono mere specificazioni. Presuppone la luce, tuttavia, il vedere. Non l’illuminismo, però, non di necessità, almeno. Che siano interiori o esteriori, ragionevoli o folli, i Lumi sono condizione e cauzione dell’esercizio della vista. Tanto ampio il vedere, che ingloba la passività: anche involontariamente, vediamo. In ultima analisi, basta la luce per prendere visione di un oggetto, sia esso il proprio io, sia esso il corpo dell’altro, qui di fianco a noi o steso senza vita in una guerra lontana. Per comprenderlo, ci chiede volontà. Per vederlo, basta cercare un sole, ovvero, in mancanza, crearlo. È in questo senso che le creazioni che abbiamo raccolto in questo numero di Diwali sono visioni: proponiamo di leggerle come un doppio movimento, che dalla scena interiore proietta sul palco e dalla scena pubblica introietta nell’intimo. Perché l’artista è il soggetto del vedere che in un solo gesto rappresenta la realtà e la traspone nella scena interiore, che traduce gli oggetti nel linguaggio dell’inconscio pur parlando una lingua universale. E a voi lettori rivolgiamo l’invito a vedere nelle visioni questa doppiezza e a partecipare alla creazione, girando nella vita mai conclusa ma eternamente circolare della produzione artistica.
Diwali – Rivista contaminata
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