
Esco di casa nell’ora del mattino giovane. L’aria frizza sul viso con buona energia e non tiro fuori le mani dal ristoro delle tasche. Finché cammino non ho freddo; quando arriverò alla fermata dell’autobus improvviserò i miei soliti impercettibili saltelli sul marciapiedi gelato. Cammino; mi fa da scorta la nuvoletta personale di vapore attorno al naso. Qualche folata di vento, poi sole, ombra, sole, ombra: esercizio termoregolatore sulla poca pelle esposta, ma il ritmo del passo è incostante, al calore dei raggi è più lento, all’ombra più veloce. Le aiuole sono scure di ghiaccio; strano, è quasi primavera. Da un ramo al sole un uccello plana vicino all’immondizia sperando in qualche briciola. Penso se l’incuria degli uomini sia per lui un vantaggio; si muove velocemente per il freddo umbratile. Ho problemi ai talloni, non posso accelerare il passo più di tanto; vedo a terra una processione in miniatura che si muove. Alla fermata i soliti astanti, visi che ritrovo da tempo ma la cui distanza umana fatta di indifferenza non m’ha ancora consentito di distinguerne il colore degli occhi, la genesi di un sorriso. Guardo l’orologio, mi dice che non c’è tempo per un caffè caldo al bar, così ripongo l’idea nell’archivio delle cose confortevoli da fare. Nessuno parla. Arriva l’autobus. Finalmente il corpo starà al caldo. La mente l’accudirò da sola.
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folate fredde
e colline innevate –
gambe faticano
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sul prato freddo
una fila di bruchi
procede lenta
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briciole in strada
pane torna alla terra –
i merli accorrono
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coda dritta
il merlo raspa a terra –
un balzo e vola
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vento d’inverno
saettano le raffiche
tra chiome spoglie
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viviamo in noi
scorrendo i giorni freddi
senza rumore
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l’autobus corre
mi stringo nel cappotto
in solitudine
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