“Ho sognato d’ essere disteso su un letto accanto a un uomo che non sono sicuro d’identificare. Gli giravo le spalle. E tu sei venuta ad allungarti accanto a me. Mi baciavi sulle labbra e io ti carezzavo quei tuoi seni fluidi e vivi sotto il vestito. A un tratto, dolcemente, la tua mano è passata sopra di me ed è andata a cercare il sesso dell’ altro personaggio”[1]. Così il poeta Paul Eluard alla moglie Gala. L’altro, l’amante, è il pittore Marx Ernst.
“Pura forza sessuale”, Gala, maschera di Elena Ivanovna Diakonova. Dal primo dopoguerra diventa la “musa inquietante” dei surrealisti. Ma la fine è visibile tra le fiamme, in filigrana: prima della sua imbalsamazione, arse così tanto il suo sesso da bruciarle il viso, piagato da rughe e rammendi al bisturi. La sua potenza erotica si dissolse così, lasciando scoperta una realtà che il desiderio incontrollato non poteva coprire in eterno.
In gruppo, in tre, da soli, a volte in due. La scena surrealista parigina non era accidentalmente orgiastica, l’orgia ne abitava l’essenza. Gala Eluard, poi Gala Dalì, fece da snodo a una delle tante scene private in cui l’aria dei tempi si rapprese in un nugolo di ansia asfissiante, ma irrinunciabile. La minaccia della fine, l’immagine di una donna dal corpo in rovina che paga per spingersi nella carne giovani sessi, lungi dal farla desistere ne amplificava il desiderio. Lasciarsi sopraffare dalla carne era un bruciante sonnifero, tanto più ricercato quanto più lo spettro della solitudine si affacciava all’orizzonte della bellezza.
Giù la maschera, Gala! Finì costretta a prenderli in fitto, gli uomini, i soldi in cambio del loro sesso, e il suo viso sul letto di morte si scompose in raccapriccianti piaghe aperte, ultima epifania di quella vanità che l’aveva portata a ricorrere senza misura alla chirurgia estetica, facendo del suo viso da strega campo orrorifico di ferite, buchi e cuciture.
Ma prima…ah, prima. In sanatorio, forse per turbe psichiche, gli occhi duri e le labbra sottili della giovane russa attirarono a sé il grande poeta, che la sposò. Era il 1917. Per lei Eluard compone le sue prime poesie. Nel 1928 trascina nel loro letto il pittore austriaco Max Ernst. Fin quando Eluard non fugge, raggiunto ben presto dai due amanti. Nuovamente soli, dopo qualche anno, Gala e il marito si separano. È entrato in scena il pittore catalano, di dieci anni più giovane di lei. Sarà il rapporto più intenso e complesso della vita di entrambi. Non solo amante appassionata e irresistibile, Gala sarà anche madre e padrona. Dalì ne riconoscerà il merito: la potenza espressiva del pittore dipende da lei, dalla sua smisurata potenza erotica, dall’onnipervasiva carica affettiva, ma anche dall’efficientissima capacità. Ne gestirà i soldi, non senza attirarsi critiche, oltre che il sesso. Ma il tempo segna il corpo, anche per Gala e Dalì. Si arenano i sospiri negli anni, le consuetudini allontanano le mani e la mente, e la russa non più giovane paga per iniettare giovani sussulti nel proprio corpo, mentre il genio dell’artista è ormai universalmente riconosciuto.
Fine ingloriosa per la protagonista di uno dei più celebri ménage à trois della storia, Donna di Eluard, madre amante e Musa di Salvador Dalì? No, solo il compimento di una vita trascorsa con le mani nella carne viva, con un piede impigliato nei propri fantasmi e l’alito caldo del sesso sul collo. Il fuoco mai spento mangia l’anima e non lascia, alla fine, che un’anziana e triste signora, sola con il suo denaro in contanti per godere, quel po’ che le era ancora concesso; tristi segni della bellezza svanita. E Dalì al capezzale; imbalsamata, infine, nel suo castello, ultimo simbolo del più macabro massacro del corpo, quello della sua venerazione erotica.
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