Giuseppe Bonaccorso

“Qui”, è un preciso luogo e nello stesso istante, un “non luogo” che si colloca nell’infinito.
Un ripetuto avverbio quello di Giuseppe Bonaccorso che suona quale epitaffio ai propri ardenti desideri, agli amori trascorsi, che vuole essere rimpianto ed altresì stadio di consapevolezza. Un punto di arrivo dove mestamente quietare l’animo che ha a lungo infruttuosamente vagato. Non c’è saggezza che si possa raggiungere senza passare per un rituale di purificazione, né alba da vedere per l’uomo che si è nutrito durante il cammino, di tutto il proprio buio.

Laura Di Marco

***

Qui. Dove poggiano i miei piedi
e dove il sole mi congela in un’ombra senz’anima.
Qui. Dove respiro gli ultimi gemiti del giorno,
inghiotto ogni stella,
e abbraccio torbidamente la luna.
Qui. Dove qualcuno talvolta mi vede,
dove la folla gorgheggia,
e dove la cattedra antica è nel bagno d’un manicomio,
qui è sepolto l’ultimo me,
sazio di inutili labbra.
In quella carezza d’addio,
in quello sguardo scolpito nella cera,
sul dorso di una busta mai spedita,
si sveglia il primo, timido ruggito carminio,
vestigia di un’aurora che congeda la notte,
come un amante inebriato,
il suo ultimo amplesso.
Nel paradiso dei saggi,
io ardo, lento come una brezza scarlatta,
sopra un immenso rogo di mirti.

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