Fotografare l’assenza, il vuoto, la mancanza. Semplificare, contrarre, asciugare le immagini al massimo per coglierne l’essenza.
Questa è la sfida che si propone il XII festival internazionale di Fotografia in corso al MACRO di Roma dal 5 ottobre all’8 dicembre 2013, con una collettiva che comprende il lavoro di artisti internazionali quali Aline Diépois (1973, Svizzera) & Thomas Gizolme (1967, Francia), Elger Esser (1967, Stuttgart, Germania), Patrick Faigenbaum (1954, Parigi), Gaston Zvi Ickowicz (1974, Buenos Aires), Guy Tillim (1962, Johannesburg) e Jeff Wall (1946, Vancouver).
Tema di quest’anno, forse tra i più estremi della storia di questo evento è, infatti, la VACATIO, intesa come sospensione e assenza, in contrapposizione ai tradizionali valori fotografici di riempimento e di rappresentazione nei confronti del soggetto fotografato. Un tentativo, quindi, di riduzione, di arrivare all’assenza come essenza, rielaborando il soggetto e completandolo con visioni interiori e proiezioni. “Vacatio” soprattutto come stato mentale, che ogni artista tende a interpretare in base alla propria soggettività. È pertanto la vicinanza tra fotografia e psicologia d essere messa in evidenza in questa mostra, che punta altresì a riflettere su come sia mutato il ruolo della fotografia stessa, tra le arti forse quella maggiormente influenzata dal contesto sociale, sia per la sua velocità di produzione – oggi accentuata dallo sviluppo tecnologico –, sia per il ruolo di testimonianza che le viene attribuito. Un’emotività che, secondo Marco Delogu, il direttore artistico del festival, è aumentata con l’utilizzo delle nuove tecniche digitali, “ora ci si interroga maggiormente sull’atto della fotografia e non solo sul soggetto in sé”.
Si tratta, infine, in una riflessione sul bisogno di fotografare e sui cambiamenti di identità, sull’assenza stessa del mezzo fotografico o del fotografo durante la fotografia.
Tutto questo si traduce in un ribaltamento di priorità nel rapporto tra fotografante e fotografato, nel non cercare soggetti in un’epoca di incertezze strutturali e sociali. Un rispettare la condizione individuale e di solitudine; e su questi nuovi scenari labili, ricostruire un tessuto forte della fotografia d’autore ricominciando a lavorare sulle singole identità, lottare per la secca estetica di ognuno di noi, la profondità.
Lo spunto per questa tematica è da ricondursi, a quanto riferisce lo stesso Delogu, alla situazione particolare che nei mesi passati si è trovata a vivere questo paese, uno stato di vuoto istituzionale (governo, presidente della Repubblica) che ha generato sensazioni di incertezza e abbandono a se stessi. Una condizione, quindi, di liminalità, per riprendere un concetto mutuato dall’antropologia culturale, sospesa tra un non più e un non ancora, di transizione tra un “vecchio” ormai tramontato e un “nuovo” informe ed ignoto e che, per la sua propria condizione, può lasciare aperte all’immaginario molteplici possibilità.
È nato quindi dall’attualità questo progetto artistico che esprime il bisogno di testimoniare, di combattere nuove e vecchie assenze nel mondo, interrogandosi su quanto la fotografia possa spaziare anche in terreni non reali.
Predominano allora in questa mostra, immagini di paesaggi “estremi”: deserto, cespuglieti di macchia mediterranea, visioni marine; in sostanza tutti scenari poco ospitali o abitabili per l’uomo contemporaneo. Sono immagini vaste e senza centralità, dove l’essere umano può essere presente al massimo in qualità di traccia, resto, intuizione, passaggio fugace, come, ad esempio, le pietre di un focolare nel deserto israeliano di Zvi Ickowicz.
La collettiva prende l’avvio da un paesaggio “ruvido” di Jeff Wall (una rappresentazione in bianco e nero di un pendio cespuglioso siciliano), un’immagine priva di punti focali e senza composizione formale, dove tutte le scene che da millenni sono passate in quella collina possono essere immaginate, ma non sono rappresentate direttamente nell’immagine stessa, e che funge un po’ da copertina e manifesto del’evento. A questo si accostano un dittico di Guy Tillim, il quale, novello Gauguin, ritrae due paesaggi polinesiani che nulla concedono al sentimentalismo, l’atmosfera rarefatta di Beg en Aud (Francia) dove domina la quasi uniformità dei colori azzurrati tra cielo e mare proposta da Elger Esser, noto come un “eretico” della scuola di Düsseldorf, il gruppo di famiglia, dall’espressione stupita-spaventata di Patrick Faigenbaum, nominato a giugno vincitore del prestigioso premio Henri Cartier Bresson, i resti, dai richiami quasi biblici, di un focolare nel deserto (Gaston Zvi Ickowicz), traccia atemporale di una presenza umana e, infine, sempre come riflessione sul tempo, la raffigurazione, dai toni sfumati ed astratti, del disgelo (e quindi del susseguirsi perpetuo delle stagioni) dello Zermatt (Svizzera) ad opera di Aline Diépois e Thomas Gizolme,
Alla collettiva fanno da corollario numerose altre esposizioni, tra le quali ricordiamo:
Wounded cities, di Leo Rubinfien, a cura di Joshua Chuang una serie di ritratti che prende spunto dalla “ferita” ancora aperta causata dell’attentato di New York del settembre 2001, per estendersi anche ad altri luoghi del mondo.
A Number of Angles, di Fleur van Dodewaard a cura di Claudia Caprotti e Alessandro Dandini de Sylva, dove vengono messe in scena una serie di composizioni, sculture, dipinti, disegni e allestimenti, realizzate in studio per esplorare la natura evocativa della geometria e del colore.
Another Country di Paolo Pellegrin a cura di Marco Delogu, storie di vacatio e marginalità, di costante e quotidiana violenza alla periferia di una società, quella americana, che tenta di colmare un vuoto enorme attraverso la mania del controllo.
From the Background to the Foreground, di Sergio Zavattieri, a cura di S.A.C.S, Riso, Museo d’Arte Contemporanea della Sicilia, che travalica la dimensione classica della fotografia, intesa come superficie bidimensionale, per esplorare quella spaziale e installativa.
1. Vacatio ‹vakàzzio› s. f., lat. – Vacazione, cioè vacanza, sospensione di qualche cosa, esenzione da qualche obbligo. Fonte: Treccani.it
2. Il concetto di limen (che significa “soglia”, “margine” in latino) è traslato da Victor Turner dal lavoro di Arnold Van Gennep, che nel 1909 pubblicò in Francia il libro Les rites de passage (trad. italiana: I riti di passaggio).
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