È il romanzo più conosciuto in Italia della celebre scrittrice ungherese, pubblicato nel 1987: la storia del rapporto a tratti difficile, a tratti morboso, amicale e quasi materno tra l’autrice ed Ermenec Szeredàs, la donna che sbriga le faccende domestiche in casa sua.
La porta della casa di Ermenec che nessuno può varcare è la protezione del suo mondo dal mondo altro. Solo alla sua morte svelerà un universo domestico di raccapricciante abbandono: la donna rigida, moralista, severa, la donna che regala gli avanzi di cibo quali fossero il menu di un pranzo luculliano, si rivela in realtà fragile e sofferente ogni qual volta si incrina il rapporto con la narratrice-figlia. Il cane, Viola, diventa l’intermediario dei loro rapporti di silenzio.
Un silenzio rotto di rado solo dai rimproveri di Ermenec alla sua borghese padrona: lei e la sua devozione bigotta, lei e il suo ordine mentale, lei e la sua maniacale suddivisione della settimana. Dove ogni giorno si parla una lingua diversa, dove ogni ora è precisamente scandita, ma dove la casa è disordinata e il suo ossessionante battere a macchina risulta totalmente incomprensibile.
Due mondi che si scontrano, quello di una donna sola e umile abbandonata dalla figlia e segnata dalla vita e quella di un’eterna bambina viziata e intellettuale. E che si incontrano, proprio quando le due donne si allontanano: «Non lo disse. Eppure sentii che se l’avessi lasciata morire, se avessi accettato che, ormai impotente, si autocondannasse a morte invece di svelare la sua vergogna agli abitanti della via che l’avevano sempre considerata degna del massimo rispetto. Ermenec avrebbe capito che l’amavo. Ermenec non credeva nel paradiso, credeva nell’istante. Quando le avevo fatto aprire la porta l’ordine del suo mondo era crollato seppellendo anche lei».
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