Anatomia della Malinconia – Robert Burton

La materia da trattare è ardua e il metodo scelto, quello dell’analisi scientifica con  dissezione su tavolo anatomico, accentua ancor di più  le difficoltà. Sebbene il cadavere in questo caso  sia un sentimento, ossia la malinconia, bile nera  o atrabile, e lo scienziato un pastore anglicano del 1600, Robert Burton. Stiamo parlando di un’opera mirabolante, “Anatomia della malinconia” che si apre sotto l’egida della figura di Democrito, filosofo ipocondriaco di Abdera, dato che  Burton per l’occasione indossa la maschera di Democritus junor,  voce narrante dell’ erudito arguto scevro da pregiudizi il cui ritratto campeggia sul frontespizio del libro. Libro barocco per eccellenza che vede la luce nel 1621 e come un caleidoscopio rifrange il coro delle citazioni di uomini illustri di tutti i tempi, filosofi, poeti, umanisti, debordando in libro dell’eccesso dove dimora un’intera biblioteca, come osservò Starobinski.

Questa compilazione febbrile intende trattare della follia, o per meglio dire, impostare l’accusa  di follia generale del mondo per poi dimostrarla in pagine e pagine che sembrano scritte da un invasato il quale giunge perfino a negare la propria identità: “non sono io che ho parlato ma tutti gli antichi sapienti, questo mio libro è un centone preso da altri: sono loro che parlano, non io”.

Le innumerevoli testimonianze vogliono colmare il vuoto di grande malinconico dell’autore che travasa tutta la sua inquietudine e insicurezza nel suo trattato continuamente revisionato ed editato, dapprima nel 1624, e successivamente nel 1628, nel 1632, e nel 1638.

L’affastellamento babelico dei frammenti, delle sentenze, dei motti, dei fiori e detti, e delle ricette ci fa capire che la furia compilatoria sia stato l’unico metodo perseguibile date le proporzioni della materia: la malinconia universale e tutto ciò che gli uomini fanno, “i loro desideri e timori, nell’ira e nel piacere, gioie, fantasticherie…”.

Amplificazione, iperbole, eccesso, paradosso spiazzano e meravigliano, stordisccono e confondono disperdendosi in mille ramificazioni, nelle voci e nei richiami che giungono da ogni rigo  dove Burton pare quasi confessare  l’insufficienza del proprio pensiero in questo “vasto caos e confusione di libri”.

 Per alcuni aspetti ci sorprende la modernità dello stile, il copia-incolla ante litteram, l’uso indiscriminato dell’auctoritas, il pericolo di dogmatismo, la  tesaurizzazione al servizio di un’analisi oggettiva e spersonalizzata di un sentimento  ovvero  di uno stato maniaco-depressivo che oggi ha assunto le proporzioni della pandemia.

La malinconia universale viene suddivisa in malinconia degli Stati, delle famiglie, degli individui e per ogni patologia viene proposta un’adeguata terapia.

Quale cura per la malinconia dello Stato se non l’Utopia? Ma in questo caso  una utopia privata, propria di Democrito, che diventa una sorta di auto-terapia.

Oppure, in un altro luogo dell’opera, viene indicata la cura del distacco attraverso il riso beffardo,  lo sguardo cinico  su uomini e mondo, la risata di disprezzo dell’ intellettuale disincantato, il sarcasmo quale antitodo  agli scandali della politica e del potere. Perché “tutti i volti, tutte le maschere possono servire alla critica malinconico e scientifica di un mondo delirante, devastato esso pure dall’eccesso di malinconia”, ci dice Starobinski.

Allora non resta che immergersi nel fiume in piena delle citazioni, ad esempio quelle intorno alle cause del corpo infermo di uno Stato, immergersi nell’attualità  delle riflessioni  sulla politica che ci invogliano a diventar compilatori e complici anche noi di Burton,  andando a leggere e chiosare pensieri e idee dietro le spalle larghe di un qualche Democrito, di un filosofo antico, all’ombra di  una freddura o facezia (greca e latina), rafforzati  nelle nostre convinzioni dall’esperienza di tanti autorevoli sapienti che soffrono lo stesso male, atavico, millenario eppure identico al nostro, armati della stessa  passione e malumore. Tanta gente  viva, polemica e indomita: “… Quando i principi o i potenti sono malvagi, invidiosi, faziosi, facile preda dell’ambizione e dell’emulazione, essi distruggono una comunità…Se essi sono come tante sanguisughe, avidi, ingordi, corrotti, cupidi, schiavi dell’avarizia, rapaci come lupi (infatti, come scrive Cicerone, Qui praest prodest, et qui pecudibus praeest, debet eorum utilitati inservire [comandare è servire;chi guida un gregge deve dedicarsi al suo interesse] ), oppure tali da preferire il bene privato a quello pubblico (perché come disse molto tempo fa Sallustio, Res privatae publicis semper  officere [l’interesse privato ostacola sempre il servizio pubblico]); o se essi sono illetterati, ignoranti, superficiali in politica, ubi deest facultas. virtus (Aristot., Pol. , 5, cap.8, et scientia ) [privi di talento, ingegno e conoscenza], saggi solo per diritto ereditario, e autorevoli per nascita, favori, ricchezze o titoli; allora ci deve essere qualcosa di sbagliato…allora, necessariamente, ne deriva il caos per lo stato.

Infatti, quale è il principe, tale è il popolo…Potrei riportare molti altri inconvenienti che possono turbare il corpo politico. per chiudere in breve, dirò che dove c’è un buon governo, principi assennati e saggi, là le cose fioriscono e prosperano, e in quelle terre regna la pace e la felicità; dove è altrimenti, tutto appare desolato, incolto, abbandonato, incivile, come un paradiso trasformato in un deserto…”

Correva l’anno 1621 quando così tante sentenze ricoperte dalla polvere dei secoli furono collezionate una accanto all’altra, in una sorta di piccola enciclopedia da camera, per raccontare l’affezione saturnina di un’epoca. Rispolverare il volume oggi può rivelare un coinvolgimento intorno a un sentimento (e a un pathos) inaspettatamente contemporanei.

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